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venerdì 1 gennaio 2010

Un mondo ai lati


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Moderato da: acquasottoilponte , editor

Corso di Laurea in Filosofie e Scienze della Comunicazione e della Conoscenza : Indice » » Pensiero e poesia
  
 E' morto Alfredo Giuliani
2 pagine ( 1 | 2 )
Autore E' morto Alfredo Giuliani
LuigiCristaldi



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 Inserito 23-08-2007 alle ore 16:30   



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schizo_frenico



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X. Frammento dell'anarchia
amente dichiarò ch
il paziente si ritrae nel m
scopo di questo frammento è accertare la vost
ose e in minuscoli due pezzi a cui dettano ordini e contrordini
è estremamente vivace e può persino compiere alcuni mo
ioriva con inaudita letizia la città
è diffici

chiarò chiunque metta la mano
te si ritrae nel momento del raggiungimento d
questo frammento è accertare la vostra attuale velocità e grado
due pezzi a cui dettano ordini e contrordini mentre as
compiere alcuni movimenti con le bra
la città
riesca a comprende

iunque metta la mano su di me per governarmi
rae nel momento del raggiungimento del piacere quando si tratta
è accertare la vostra attuale velocità e grado di comp
trordini mentre aspettano con ansia
on le bra
tino e di mattone
comprenderli conviene quin

tta la mano su di me per governarmi è un usurpatore e un tiran
il raggiungimento del piacere quando si tratta di fare
tà e grado di compresione per stabi
con ansia
uo cuore batte già
mattone sorbiva la luce com
erli conviene quindi lasciarli nel loro ambie

me per governarmi è un usurpatore e un tiranno io lo d
si tratta di fare un passo decisivo
per stabi
di essere chiamati
batte già da due settimane
sorbiva la luce come un'avida selva le fontan
iene quindi lasciarli nel loro ambiente senza cercare di volerl

un tiranno io lo dichiaro mio nemico
decisivo
ivello base su cui
chiamati al telefono instal
da due settimane ha un cervello e un sistema
a luce come un'avida selva le fontane papali si levavano in un
arli nel loro ambiente senza cercare di volerli cambia

io nemico
indiretto verso di
se su cui misurare i vostri
al telefono installato a un metro dall'acqua
ettimane ha un cervello e un sistema nervosa che mandano impuls
da selva le fontane papali si levavano in un cielo più
di volerli cambiare fosse anche nell

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DissolvedGirl



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Alfredo Giuliani sulle avanguardie del XX secolo:

parte prima

parte seconda

parte terza

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schizo_frenico



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da Ora Esatta di Massimo Celani:

L’anima mia vilment’ è sbigotita
E’ morto Alfredo Giuliani. Poeta, studioso e scrittore grandissimo. Nato a Mombaroccio (Pesaro)
nel 1924, romano d’adozione. Schivo, gentile, sempre disponibile. E’ il curatore de I novissimi
(Rusconi, 1961) e del volume Gruppo ’63. La nuova letteratura
(Feltrinelli, 1964). E’ l’autore di Chi l’avrebbe detto (Einaudi,
1973), di Versi e nonversi (Feltrinelli, 1986) e di molte
altre raccolte di poesie perlopiù introvabili. Per molti anni
ha animato le pagine culturali di la Repubblica.
Amico perplesso del corso di laurea in Filosofie e Scienze
della Comunicazione dell’Unical. Sul suo portale è facile
rintracciare delle lunghe conversazioni (basterà incrociare
sulle ricerche avanzate di Google “alfredo giuliani” con
mondoailati) a cura di Orazio Converso che ce lo ha fatto
incontrare e conoscere. Gliene siamo grati anche se così facendo il cuore di molti è oggi zoppo.
Ora Esatta lo ricorda con sei scherzi decasillabi, uno in meno del previsto. (mc)

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schizo_frenico



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 Inserito 28-08-2007 alle ore 13:38   


Sei scherzi decasillabi
DI ALFREDO GIULIANI
1
Gioiosa gioia snello gomitolo
gommoso balli in vetta al vello
nell’anima sbigottito sonno
stellato e belano le valli
blesi limbi vaghi gli antenati.
2
La bolsa mano bigotta tiene
l’animale alto a lenti geli
vili agonie in albe animose
lo svagano a iosa ansia illesa
mamma vittima osanna al vitto.
3
Molle miele o viola sono gemme
ai limitati agili titani
e violate se non basta tostate
sanno bene l’ago e il ginnasta
aglio olio menta miglio mosto
4
Amo i villosi voli in bilico
al Nilo all’isba lino o tonno
lemma il globo in gola solatìo
smania sgamba sgamolla e smammola
semiosa magia sotto la neve.
5
Bilioso sogno al gomito gotta
vagante mantello mammone
al minimo male si esilia
la mente intona boia non vomita
gaio ignobile agevole male.
6 (Al romantico gilet di Théophile Gautier)
Legittimo illibato gilet
sgabello a ogni jella e atto
sgomina anisette a migliaia
smove svetta seni sonnamboli
stato soave stabile invano.
in Ebbrezza di placamenti,
Piero Manni, 1993
(nota sul logogrifo)
Giuliani è partito da un verso di Guido
Cavalcanti a lui particolarmente
caro: “L’anima mia vilment’è sbigotita”
(Rime, XV, v. 1). Poi, utilizzando
parole contenenti solo le 12 lettere del
verso di partenza (a, b, e, g, i, l, m, n,
o, s, t, v), ha composto 6 brani di 5
versi ciascuno, metricamente decasillabi
(diminuendo quindi di una sillaba
rispetto al verso-base, che era un
endecasillabo).

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schizo_frenico



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 Inserito 28-08-2007 alle ore 13:39   


Orari contrari
con Alfredo Giuliani
di ORAZIO CONVERSO

Sono andato molte volte in questi anni con il
treno metropolitano da Alfredo Giuliani in
cerca d’aiuto, l’ultima per un impegno con
l’Università d’insegnare scrittura e farlo da illetterato
sporgendomi sulle nuove tecnologie
digitali. Avevo adocchiato nella sua bella casa
certi collages promettenti e mi dicevo che
se a tenerli era Giuliani, di sicuro c’era del
buono; se poi era lui l’autore con Novelli e gli
altri, allora bisognava proprio che sapessi.
Evitando accuratamente di approfondire l’argomento,
pregustando gli eventi, mi misi
d’accordo per andare da lui con la mia camera.
Si arrampicò su una scaletta alquanto precaria
e cominciammo dal primo in alto, nell’ingresso,
mettendo in allarme Rupert che non
era stato avvertito delle riprese - i suoi abbai
infatti sono l’incipit, la sigla. Da pretesto il collage,
ben presto, si fece fido conduttore ed io
seppi a lungo cosa dire agli studenti ad Arcavacata,
delle peripezie dell’arte, della sperimentazione
e delle tecnologie dell’alfabeto in
tempi non sospetti; dalla sua esperienza in Rai,
dalla docenza a Bologna al Dams, muovemmo
a ritroso per l’esperienza vertiginosa degli anni
cinquanta e sessanta alla raccolta di spunti
per la composizione e la progettazione di artefatti
comunicativi per chi fosse alle prese oggi
con l’immensa tavolozza del web e con il
nuovo repentino abbassamento della lingua
nelle pubblicazioni digitali.
«Non ricordo quando ho scelto la poesia. Da
bambino leggevo i libri e i giornali che leggevano
tutti i bambini; e forse qualcuno di più:
favole, avventure, viaggi. Tra gli undici e i
tredici, mi vedo affascinato e immerso, non so
proprio perché, nel teatro: Goldoni; Alfieri;
Shakespeare (in traduzioni ottocentesche),
Metastasio (Didone abbandonata e Attilio Regolo).
Dopo i tredici devo aver cominciato con i
romanzi (Dickens, Stevenson, Dostoevskji,
Dumas). Verso i quattordici divento lettore
onnivoro, ricevo in regalo tutti i volumi della
collana «I grandi scrittori stranieri» UTET (saranno
stati un centinaio) e lì scopro Baudelaire
e Shelley (tradotti in prosa). Fu allora, tra i
quattordici e i quindici anni; che l’interesse
per la poesia prese un certo sopravvento? Può
essere, ma non ne sono affatto sicuro. Al ginnasio
ebbi per un certo periodo un professore
dannunziano. Amavo Leopardi e trovavo
D’Annunzio detestabile, anzi repellente. Non
sapevo ancora niente della poesia “moderna”.
Ma ciò che ricordo come un trauma incancellabile
è la prima lettura di Rimbaud. Ero sui
quindici anni e qualcuno mi dette Una stagione
all’inferno e le Illuminazioni tradotte da Oreste
Ferrari. Ero incantato, e sconvolto, dal venire
a sapere che quei poemi in prosa, scritti
da un ventenne, risalivano al 1873-74. Stava
per scoppiare la seconda guerra mondiale e io,
che iniziavo il liceo, avevo messo un piede
nella lirica “pura” mentre l’altro correva con
gli esametri dell’Odissea (è dal mio maestro di
liceo, il giovane Bruno Gentili, che mi venne
inoculata la passione per la metrica). Eppure
fino ai diciannove, venti anni non tentai di
scrivere versi.(..)» (Alfredo Giuliani, La poesia
è una cosa in più, Ebbrezza di placamenti, il Verri”,
n.11-12, 1989)
La sua biografia per affrontare l’insicurezza
dei giovani allievi, di chi non può provarsi e
finisce col perdersi nell’afasia operosa dell’agire
compulsivo studentesco; per me e i
miei protetti, dire come usò l’autoanalisi per
autorizzarsi da sé alla scrittura e alla poesia;
come avesse maturato le scelte dei poeti nuovi
e il sodalizio con Anceschi. Cercai con il video
e i luoghi della rete che andavamo popolando,
non qualcosa da aggiungere in gara col
racconto, piuttosto con l’ascolto e le note a
margine delle corrispondenze - non un vero e
proprio metodo che s’ispirasse al modo di ricercare
che poi condusse dai collage e le pièce
alle Poesie di teatro, a riportare alla tipografia
quel che circolava nell’ambiente, nei media,
nelle performance, nei convegni - tecniche,
utensili che divenissero strumenti nel
procedere della sperimentazione, oggi come
allora.
Nei Media Sincronizzati a base testuale di Orfeo,
Luigi, Valeria, Daniele, Rosario e via via
degli altri, con gli studi per esempio sul paratesto
di Ale e Silvia che attivavano il laboratorio
a distanza, nelle interfacce mobili e dinamiche
di Nicola e Francesco, con i report degli
avatar più originali in ascolto e visione, trovammo
con Alfredo tracce ed echi bastanti
per continuare a vederci e a registrare, tanto
che ad un certo punto si decise di studiare per
esempio Quindici e magari poi Il cavallo di Troia,
riviste guida che fornivano le piattaforme
ideali della condivisione e del lavoro cooperativo
per i gruppi di lavoro in rete.
«Quindici è un giornale fondato sulla fiducia
interna, non sulla routine professionistica. Un
gruppo di scrittori lo ha inventato dal nulla, e
io sono uno di questi. Credevamo di poter fare
una cosa che allargasse un poco la nostra
udienza, e l’abbiam fatta. Abbiamo avuto successo,
più di quanto noi stessi speravamo. Il
merito non è mio, né del direttore editoriale.
Il merito è della. fiducia reciproca che ha sorretto
tutti noi. Io stesso, quale responsabile,
non ero che un fiduciario del collettivo. Nessuno
mi ha tolto la fiducia, e io la conservo da
parte mia per tutti i collaboratori. Dunque
perché, «sul più bello», ho deciso di andarmene?
È difficile da spiegare, e mi ci proverò.
Forse occorrerebbe un lungo discorso, una
cronistoria minuziosa. Negli ultimi tempi mi
estenuavo, più che a raccogliere il «materiale»,
in lotte sempre meno allegre per bloccare le infiltrazioni
di materiale oscuro e demagogico.
Il mio crescente disagio nasceva dalla sensazione
sempre più opprimente di essere entrato,
quasi senza accorgermene, nella Ortodossia
del Dissenso. Sia chiaro che io sono stato
felice di pubblicare nei numeri scorsi certi documenti:
le carte rivendicative degli studenti
dell’Università di Torino, la teologia della violenza,
la protesta dei cittadini di Orgosolo, sono
fatti che noi abbiamo portato per primi all’attenzione
di una grande cerchia di lettori,
fatti che era giusto parlassero con il loro linguaggio.
Ma il materiale di cui è composta
una rivista è forse meno importante dell’atmosfera
in cui viene proposto. Il passaggio
dal documento o dall’argomento «giusto» al
documento o all’argomento «facile» avviene
in maniera percettibile ma subdola. Comincia
il ricatto psicologico della cosa di cui si deve
parlare. Il Dissenso diventa una merce che
bisogna fornire. Non si ragiona più se non col
Dissenso Comune.(..)» (Editoriale, Perché lascio
la direzione di « QUINDICI » di Alfredo
Giuliani).
Non so più come fu che un giorno incorremmo
nei dizionari e nei vocabolari e ci fu
un’epifania da registrare – fui pronto con il videotelefono:
“Tommaseo, alla lettera M, Morte,
senti: Passione a cui sottostà il corpo quando
l’anima cessa di ravvivarlo, capisci, la mentalità
che ci sta sotto? Per questo bacchettone spiritualista,
la morte non è un fenomeno ma una
passione! Così alla fine quando hai letto la definizione
sai cos’è la morte, ma non sai cos’è
la vita.”
Poco male che non si faccia lezione ad Arcavacata,
e non si risponda sul web alle domande
dei “ragazzi”, anche se mi disse lui stesso
dopo un po’ di ritornare a farlo quando si fosse
placato il mio disinganno: il maestro amico
dovrà rispondere da molto lontano alle nostre
domande, starà a noi raccorciare le distanze,
oppure rimetterle e chiamarlo accanto.
«L’ironia non è ironica, spiegò una volta Alberto
Savinio ai suoi lettori; diversamente da
quanto si crede generalmente, l’ironia è seria.
Quei temi risibili, nella scrittura di Orari contrari
(di Lucio Klobas), toccano gli abissi quotidiani
del senso e dell’insensatezza. Per convincersene,
basta leggere con attenzione i due
testi più «teoricí» del libro: Tempo supplementare
e Lente deformante.
Il primo potrebbe valere come una irresistibile
conferenza sulla lotta contro il tempo. Qui
le frasi si concatenano in sequenze così ben
congegnate e montate che perfino i luoghi comuni
prescelti nel percorso paradossale suonano
come gag. Potremmo anche sussultare
di filosofico riso. L’altro testo, Lente deformante,
descrive accuratamente la condizione dello
scrittore che vorrebbe descrivere la realtà
tale e quale, così come gli accade o gli accadrebbe
di percepirla o allucinarla o ricordarla
da instancabile osservatore di fenomeni e
scrutatore di destini. Descrivere la morte in
persona, fin dal suo primo timido apparire,
mentre egli sta morendo. Insomma scrivere
«come fosse lui stesso la morte che si autodescrive
», morire con la penna in mano, questo
sarebbe il massimo del realismo e lo ripagherebbe
degli enormi sacrificí compiuti per identificarsi
con le parti in causa. Il libro termina
con una svolta inattesa, poche righe in cui l’allegoria
non è più ipotetica, non è più dimensione
puramente mentale perché ha preso corpo
in una realtà delicata, felice e inevitabilmente
fragile». (Alfredo Giuliani, La Repubblica,
su “Orari contrari” di Klobas)
i materiali relativi su http://uniet.it

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schizo_frenico



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 Inserito 28-08-2007 alle ore 19:07   


NEL BLA BLA BLA DELL'ITALIA DELLE MAMME FORTI
Alfredo Giuliani

C'è di tutto e di più nel SuperEliogabalo di Alberto Arbasino, forse anche un pochetto di troppo (qualche eccesso di rifinitura) nella sua terza apparizione recentissima (Adelphi, pagg. 408, lire 45.000). I vecchi fans delle apparizioni precedenti (1969, 197 sanno che il libro è un viaggio indimenticabile nella Smoderatezza Parodistica, è una visita ricreativa all'Esposizione universale delle stronzaggini antiche e attuali, copiosamente esibite (però a ritmo veloce) con fantasiosa disinvoltissima eleganza e humour, illuminate dall'intelligenza.
Tale era il SuperEliogabalo fin dal principio e tale è rimasto, è quasi inutile dirlo, con tutti i ritocchi e gli aggiornamenti e arricchimenti introdotti da un'edizione all'altra.
( Alberto Arbasino )

Se l'Eliogabalo ha seguito la stessa sorte del Fratelli d'Italia, di essere riveduto due volte, anche a distanza di decenni, un motivo dovrebbe esserci. Ecco, io penso che l'autore prediliga queste sue creature così diverse perché entrambe hanno puntato a una visione onnicomprensiva dell'insignificanza loquace. Fratelli d'Italia, romanzo conversazione di voci annaspanti in un mondo che si recita addosso senza conoscersi, è nel fondo una commedia tragica.
SuperEliogabalo è una sceneggiata comica, una farsa profetica che rimbalza dall'Impero romano protervamente più delirante al più sgangherato tempo «presente» dei nostrani giorni non meno insensati.
( Alberto Arbasino foto di Umberto Pizzi )

Il gran gioco parodistico di Arbasino sembra nato da una rivolta, sua, personale, contro la malinconia che si accumula sugli umani storia facendo. Scritto nel 1968, il primo Eliogabalo scatta da un curioso intreccio di «trame e griglie disparatissime». Lo stesso autore spiegò che, tra entusiasmi e tumulti e catastrofi, andando in giro per gli Stati Uniti e l'Europa, gli venne voglia di «raccontare subito le illusioni e le disillusioni e i fallimenti della prima grande rivolta giovanile del nostro tempo».
Ma contemporaneamente, oltre a seguire i soliti mille interessi, «progettava un film villano su un imperatore romano molto minore, con una famigliaccia molto romana piena di debiti». E qui cadono suggerimenti e consigli di amici (in primis da Luigi Malerba venne l'idea di un thrillerpochade imperiale e guitto in costume da bagno e con guizzi «piuttosto moderni»).
Così spunta la figura adolescente di Eliogabalo, imperatore a 14 anni, trucidato dai pretoriani a 18. Si era nell'anno 222 d.C.. Di questo ragazzotto sfrenato sono tramandate stranezze e crudeltà. Antonin Artaud, che non era uno storico ma un artista e di esperienze estreme, ne fece nel suo Héliogabale un libertino mistico, un anarchico Re Solare che accetta malamente di essere un io umano, e che sputtana l'impero in tutti i modi concepibili, i più oltraggiosi e sordidi. L'Eliogabalo di Artaud, depurato della sua seriosità, diventa in Arbasino una metafora grottesca dell'incolpevole ribelle demolitore delle ultime illusioni antropologiche ancora in circolazione, e che alla fine dev'essere immolato.
( Alberto Arbasino foto di Tony Menicucci )

Il SuperEliogabalo non sarebbe tale se non godesse di una natura composita. Deve qualcosa al Re Ubu di Jarry, e di striscio anche al Nerone e al Gastone di Petrolini, e molto agli storici della Decadenza romana (Lampridio, Erodiano, Dione Cassio, l'Historia Augusta), che Arbasino gli fa leggere e commentare nei momenti di relax (il bello è che la traduzione delle fonti è deliziosamente manipolata dall'autore nello stile «parlato» da Eliogabalo).
Il trovarobato del nostro scrittore è ricchissimo, inesauribile. E rifornisce il ragazzotto imperatore di riflessioni colte, di citazioni spumeggianti alternate con volgarismi sprezzanti. Se il SuperEliogabalo fosse quel filmaccio baracconesco che avrebbe potuto essere, dietro i titoli di coda vedremmo tranquillamente sfilare le facce lunatiche di Jarry, Nietzsche, di Roman Jakobson, di Bouvard e Pécuchet, Tzara e Breton, Totò e Lacan insieme ai Fratelli Marx, di Adorno e tutta la Scuola di Francoforte, Freud e Schnitzler, e i futuristi italiani e russi, e chissà quanti altri che scorrono via e non facciamo in tempo a riconoscere.
( Alberto Arbasino con Inge Feltrinelli foto di Umberto Pizzi )

Assistiamo a una specie di Ballo Excelsior alla rovescia, una Hit Parade esilarante di golose diffamazioni e intramontabili modelli del sordido. Il copione fa il verso al kolossal in costume, a un cabaret ingigantito con scenari da Luna Park, a un musical calderone e svergognato.
Tutto si realizza nella scrittura. Il musical è raccontato e recitato nella pagina, variato con le sue brevi canzoni e ballate, le gags e i balletti, e una frenetica accumulazione di cataloghi, fumetterie, sciocchezze e deliri di frivolezza.
( Alberto Arbasino foto di Umberto Pizzi )

Ne segue che la «commediaccia» è una celebrazione del travestitismo. Dato che il capriccioso Imperatore «altri non è che una Monica Vitti, con un insano surplus di lezii ironici e graziette», niente vieta di immaginare le sue quattro «mamme», bellone ingorde e balorde ma accortissime a farsi i cazzi loro nei momenti giusti, interpretate da Fratelli Marx molto felliniani truccati da esuberanti dame romane (rigorosamente anni Trenta). Anche la scrittura del libro, che sguazza imperialmente nello scialo, vuol esser presa per travestita, così com'è, fino al punto che attraverso i nonsensi e le tristezze indiavolate, si possa cogliere perfino un «O patria mia, vedo le mura e gli archi» come vera malinconia e dolore.
( Alberto Arbasino foto di Umberto Pizzi )

Le mamme di Eliogabalo, estasiate dal Kitsch, gridano festevoli: «Siamo in Italia!!! La sede dell'orrore!!!». La sede del sincretismo frazionistico politicoreligioso (tutte le politiche! tutte le religioni tutti gli spot!).
«Questa nostra epoca deve finire al più presto», annota l'Eliogabalo più segreto e profetico e surrealista in un suo taccuino «quasi pieno di scrittura automatica». E prima di essere sbranato da due aquile romane ammaestrate dal precettore, si scrive un fiero e insolente epitaffio, che conclude con uno sberleffo: io la mia parte l'ho fatta, anzi VE L'HO FATTA. La magistrale composizione era già nel testo riveduto del 1978. Lo segnalo perché nell'occasione Eliogabalo s'era truccato da Arbasino (l'ultimo travestimento). Accidenti, che chiaroveggenza. Vuol dire che scriverselo con decenni di anticipo, l'epitaffio, porta tutt'altro che male. È un marameo di buon augurio.
Alfredo Giuliani
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 Inserito 28-08-2007 alle ore 19:07   


L'ultima avanguardia italiana ha perso Alfredo Giuliani
Dai «Novissimi» al gruppo '63 la sua appassionata militanza nel campo della letteratura, tra esercizio critico e sperimentazione poetica
M. D.

Fra i protagonisti più attivi della avanguardia che, a cavallo tra gli anni '60 e '70, ha radicalmente trasformato - nel bene o, secondo alcuni, nel male - un certo modo di concepire e fare letteratura, cinema e teatro in Italia, Alfredo Giuliani è scomparso ieri a Roma, dopo una lunga malattia. Era nato a Mombaroccio, in provincia di Pesaro, ottantatré anni fa e diversamente da tanti suoi colleghi e compagni di avventura, aveva coltivato la propria ricerca e la propria sperimentazione in toni non troppo febbrili, e tuttavia non privi di radicalità, esprimendosi nella triplice veste del poeta, del critico e del traduttore.
Fin dal 1961, grazie all'antologia I novissimi. Poesie per gli anni Sessanta, ristampata da Einaudi nel '65 (con una sua nuova introduzione, dopo che già aveva curato premessa e note anche dell'edizione precedente, apparsa per Rusconi e Paolazzi), Giuliani si era situato in quella che chiamava una «posizione di mezzo»: critico e al tempo stesso autore, curatore e poeta (auto)antologizzato. Il suo nome e soprattutto le sue poesie, infatti, figuravano accanto a quelle di Elio Pagliarani, Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini e Antonio Porta. Direttore della rivista «I quindici», fondata per dare risalto a quelle manifestazioni di «contro-cultura» spesso ignorare persino negli ambienti più aperti alla ricerca formale, Giuliani curò anche, assieme a Nanni Balestrini, un altro, e non meno influente volume collettivo, che sarebbe passato alla storia con il titolo Gruppo 63. La nuova letteratura (edito da Feltrinelli nel 1964).
Tra quelle pagine venivano testimoniati i propositi di rottura dei canoni estetici lasciati in eredità dagli scrittori del decennio precedente, e al tempo stesso si tentava di porre quei propositi alla base di un «gruppo» che ricordava un po' il modello francese di «Tel quel».
Fu una esperienza determinante, realizzata a partire da una celebre riunione - che si tenne nell'ottobre del 1963 nei pressi di Palermo - alla quale participarono una trentina di scrittori e critici in gran parte provenienti dall'esperienza bolognese del «Verri», la rivista diretta da Luciano Anceschi.
Nel marzo del 1969, però, Giuliani lasciò la direzione dei «Quindici», manifestando in un editoriale di congedo tutta la propria distanza da quella che, a suo dire, stava diventando, o forse era già, una «ortodossia del dissenso». L'impegno ideologico poteva disgiungersi, riteneva, dalla pratica di un «nuovo intervento culturale». Il rischio, osservava acutamente Giuliani, era quello di asservirsi a una nuova merce, sempre più richiesta dallo scontento generalizzato che permeava il finire degli anni Sessanta: una forma di «dissenso comune», forse fin troppo comune.
Raffinato traduttore di Joyce e di Henri Michaux (Un certo Piuma, Se, 1989), appassionato lettore di Jarry, Giuliani ha raccolto alcuni dei suoi saggi più belli nei volumi Immagini e maniere (riproposto da Esi nel 1996), Le droghe di Marsiglia (Adelphi, 1977) e Autunno del Novecento (Feltrinelli, 1985). La sua ultima antologia poetica è Poetrix Bazaar, edita da Pironti nel 2003. 
 Inserito 23-08-2007 alle ore 15:59   

Addio ad Alfredo Giuliani,
sperimentatore del Gruppo 63

di Edoardo Sanguineti, da Liberazione del 21-8-2007
Con Alfredo Giuliani scompare colui che ha legato il suo nome, prima di tutto, all'esperienza dei Novissimi , con i quali si inaugurò ufficialmente, nel 1961, l'avventura nella nuova avanguardia, in Italia. Alfredo era il più anziano di noi, e la responsabilità di quell'antologia davvero epocale se l'era guadagnata sul campo, con la sua attività di recensore delle novità poetiche sulle pagine del Verri di Anceschi.
La scelta dei cinque poeti fu piuttosto travagliata. Ma tutto nasceva, in quegli anni altrettanto travagliati, da una volontà precisa di contestazione e da quel desiderio di una scrittura realmente inedita e, per la calcolata ambiguità dell'insegna stessa, estrema e, infine, e per molti riguardi, chiaramente apocalittica. Bene o male, piaccia o non piaccia, siamo stati poi in effetti, nel profondo, gli ultimi: gli ultimi a sentire, per dirla con le parole stesse di Alfredo, che una scrittura alternativa importa l'impegno di un accrescimento di vitalità e la coscienza dello "schizomorfismo" in cui quella vitalità si articoli e si strutturi. E questo perché, parafrasando un motto celebre allora, e celebre oggi, «schizomorfo era ed è il mondo».
Ma con Alfredo non ci abbandona soltanto colui che ha gestito quell'esperienza, dalla quale si è generato l'ultimo Gruppo storicamente innovativo. Scompare, con un amico difficile come di amici che davvero importano, il poeta e il saggista, il professore e il traduttore, il collaboratore e il complice di pittori, di teatranti, di musicisti, di tutta quella cultura inquieta che ha reso leggendari e quasi favolosi quegli anni anche, e forse soprattutto, per chi li ha poi combattuti e respinti più duramente.
Sei stato invidiato dai tuoi nemici, e invidiabile rimani e rimarrai, qualunque futuro si stia fabbricando per tutti gli uomini, in questo trionfo supremo del mercato delle coscienze, in questo catastrofico impero della violenza globalizzata.

Di seguito un frammento dell'intervento di Giuliani al primo incontro del Gruppo 63, 3-8 ottobre 1963 a Solanto (Palermo), sulla letteratura d'avanguardia.

Alfredo Giuliani

[...] "Questo tipo di letteratura – io inclino a credere – non è un filone esoterico rispetto alla letteratura comune; è soltanto una colorazione che da circa cento anni a questa parte riconosciamo in tutta o quasi tutta la buona letteratura. In altri termini: una nuova tradizione, quella istituita dalle opere d’avanguardia, ha finito col modificare il nostro concetto di letteratura. D’altra parte, aggiungo per evitare equivoci, sono convinto che il termine “avanguardia” suona oggi alquanto logoro e a me sembra superato soprattutto quando penso che è un termine tratto dall’armamentario bakuniniano. Ma la distinzione, a cui accennavo più sopra, resta. Diciamo allora se vogliamo , che una cosa è la letteratura d’intrattenimento, altra cosa la letteratura di ricerca e di conoscenza ( e con questi termini non intendo pregiudicare i modi della ricerca e della conoscenza).

Per dirlo in maniera molto sintetica, penso che la letteratura d’avanguardia sia caratterizzata dall’esibire la propria struttura arbitraria e maniaca quale forma eteronoma rispetto alla percezione del mondo, alla concezione del mondo: mostrando immediatamente i tralicci e sapendo di essere letteratura, essa rimanda all’apparenza reale in una maniera diversa dalla letteratura comune, che è sempre un tipo di letteratura mimetico, o esplicativo, o semplicemente razionale nel senso illuministico o naturalistico della parola. In un certo senso potremmo definire la nozione in modo allegorico, dicendo che si ha letteratura d’avanguardia là dove la delucidazione del linguaggio si presenta come enigma e interrogazione oltre la mistificazione dei falsi enigmi, cioè senza prendere per buona fino in fondo né l’apparenza reale né la letteratura in quanto tale. Di qui il suo grande margine di rischio, le sue buffonate e anche la sua “sublimità”.

C’è un’altra considerazione da fare, riguardo alla dimensione apocalittica. Il rifiuto a prendere per buono il mondo della percezione è qui caratteristico. Dicendolo con le parole di Adorno: il momento formale, il momento della struttura, è cresciuto smisuratamente di importanza essendo la mera credibilità empirica degradata a servizio giornalistico sull’epidermide del reale. Questo sarebbe anche un motivo persistente per tenere la letteratura d’avanguardia come barra di direzione nel grande mare dei giudizi. Se il normale, ciò che è direttamente comunicabile, è divenuto non realistico allora è chiaro che entra in gioco una nuova idea, per esempio, dei rapporti tra immaginazione e percezione: questo è un punto secondo me molto importante, e l’idea mi è stata confermata da un uomo come Gunther Anders quando nel suo diario di Hiroshima scopre che obbiettivamente il mondo della percezione non è più realistico, quando scopre (con i mezzi dell’informazione scientifica e dell’intuizione discorsiva) che soltanto l’immaginazione riesce ormai a fungere da organo della verità. Ma questo noi l’avevamo imparato, se non da altri, da Kafka e da Proust.

Si crede ancora che l’immaginazione sia un privilegio degli adolescenti e degli ossessi, e ancora si confonde volentieri l’immaginazione con lo straordinario. In verità, con il termine “avanguardia” non vogliamo designare, è ovvio, modi e procedimenti stravaganti, ma piuttosto l’accorgimento dell’ostacolo contro il quale lo scrittore si muove in avanti nuotando nel proprio elemento. Nel movimento del nuotatore c’è un tanto di utopia che le immaginazioni terra-terra non potranno mai capire. Forse è definendo nuovamente i domini dell’immaginazione che riusciremo a liquidare la nozione storica di “avanguardia” e a chiarire quello che più ci interessa: il realismo dell’invenzione. Non è forse già abbastanza chiaro che noi prendiamo sul serio il realismo quando è “avanguardia” e l’avanguardia quando ci dà una scossa di oggettività?

Tratto da: NANNI BALESTRINI-ALFREDO GIULIANI (a cura di), Gruppo 63. La nuova letteratura. 34 scrittori. Palermo ottobre 1963, Milano, Feltrinelli, 1964, pp. 374-376.