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domenica 17 marzo 2013

in Il verri

http://antonioschiavulli.wordpress.com/saggi/la-tenda-e-il-vento/

  • Se si escludono l’Introduzione alla prima edizione dell’antologia dei Novissimi e la Prefazione alla seconda, redatte entrambe nella forma del manifesto programmatico secondo la tradizione dell’Avanguardia storica, non si troveranno, nella pur ampia produzione critica di Alfredo Giuliani, molte tracce di un’esplicita riflessione sui modi e sul senso del proprio operare artistico. Ed è circostanza, questa, particolarmente significativa laddove si consideri quanto Giuliani abbia mostrato, nel proprio percorso di ricerca, una consapevolezza profonda della necessità di interrogarsi quotidianamente sulla propria scrittura. 
  • Quando però, dopo la pubblicazione nel 1969 del Tautofono e nel 1972 del Giovane Max, Giuliani decide di mettere da parte, almeno provvisoriamente, l’esperienza della poesia, sembra trovare nell’attività di critico letterario, peraltro già vivacemente praticata nella stagione più vitale della Nuova avanguardia, uno spazio di intervento sul reale linguistico che lo circonda sufficientemente ampio da consentirgli anche di ragionare retroattivamente sul senso del proprio impegno come poeta. Il silenzio poetico, quasi ventennale e interrotto solo, sporadicamente, dalla pubblicazione in rivista di qualche verso non sempre consegnato alle raccolte successive, diviene così, paradossalmente, il segno di una ricerca ininterrotta che impone al poeta di interrogarsi costantemente sull’impasse storica che coinvolge la sua produzione poetica. 
  • A quel silenzio corrisponde infatti un più assiduo impegno sulla scena della critica con interventi frequenti in riviste e quotidiani poi raccolti nei volumi Le droghe di Marsiglia, del 1977, e Autunno del Novecento, del 1984, che seguono alla pubblicazione, nel 1965, di Immagini e maniere, il testo che più da vicino rende conto del clima culturale negli anni più intensi del dibattito sulla poesia novissima.

[...] in Il verri 52.34 (2007): 6-21

Leopardi di Alfredo Giuliani


Leggiamo un altro passo dello Zibaldone, del 1828, decisivo
per capire come stanno veramente le cose: «All' uomo
sensibile e immaginoso, che viva, come io sono
vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando,
il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli
vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli
orecchi un suono d'una campana; e nel tempo stesso col-
l'immaginazione vedrà un'altra torre, un'altra campagna,
udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti
sta tutto il bello e il piacevole delle cose». Ecco il punto
perfettamente proustiano intorno al quale ruota l'intero
sistema del nostro grandissimo Giacomo: tanto la poetica
e la poesia, quanto la prosa, il sentimento e la filosofia dell'esistenza.
Raddoppiare l'esperienza non è unicamente
ricordare, sovrapporre involontariamente una sensazione
o un'immagine passate a una sensazione o immagine pre-
senti; è anche rovesciare il presente su se stesso e percepirne
il fantasma, quella materialità dolorosa che sta passando,
che si distrugge nell'atto di formarsi, e il cui passare
passato sarà forse misteriosamente recuperabile in un
altro futuro momento sfuggente.
Il raddoppio può prendere la figura della proiezione e
dello sdoppiamento (sarà Silvia-Leopardi, sarà la morte
bella fanciulla e la morte sanguinaria di Amore e morte),
la figura dell'anticipazione, dell'illusione tolta e restituita.

All'orribile contraddizione della Natura, all'essere per la
morte, all'infelicità dell'esistente nato per la felicità e ingannato
:fin dalla nascita, Leopardi risponde con la sua
contraddizione, con la sua eroicomica renitenza. Sciopera
contro l'Universo (ivi compresa la società e le sue ideologie),
nientemeno, perché l'Universo è un bieco, sfruttatore del
Desiderio umano, un repressore del piacere, un
inetto e ipocrita persuasore di godimento: infatti non è
riuscito a far di meglio che confondere l'amore, noi .diremmo
forse l'orgasmo, con la morte.

Non sembrerà strano se dico che l'attualità di Leopardi
confina con l'attualità di Sade: la stessa glacialità implacabile
e la stessa percezione sfrenata della Natura criminale.
Ma dove Sade si scatena a secondare voluttuosamente

[(continua) Alfredo Giuliani, Le droghe di Marsiglia, Adelphi]

mercoledì 13 marzo 2013

Marino Moretti a filo ritorto

Marino Moretti è stato, fin dalle ormai lontanissime
origini, uno scrittore di sottofondi e di malizie, ben al-
trimenti ambiguo del suo coetaneo e rivale Guido Gozza-
no. Il poeta della Signorina Felicita morì nel 1916, a me-
no di trentatré anni; e Moretti e giunto nel 1975 ai no-
vanta. Per una specie di impronta storica con cui la criti-
ca li ha segnati, la concorrenza è divenuta inevitabile; e
Moretti non ha mai smesso di contrastare a Gozzano il
primato nella poesia «crepuscolare», in quella poesia-
prosa, dimessa e ironica, che rappresenta senza dubbio
l’ingresso del modernismo nella lirica italiana. Quando a
decenni di distanza dalla stagione crepuscolare, fiorita in-
torno agli anni Dieci, Moretti confesserà questa sua tena-
ce ambizione, lo farà nella sua tipica maniera semplice e
ritorta, di sapiente estraniazione: «Come sono lontano /
da quella tomba che vidi ad Aglie! / Ebbene, io so che
cosa vuoi per te: / superare Gozzano. / Altri tempi. Og-
gi il tempo è disumano, / e tiene tutti i suoi doni per sé ».
Ma nelle poesie scritte da Moretti nello straordinario
decennio della longevità, pressappoco dal 1965 a oggi, ci
sono testimonianze più preziose, e per esempio questa:
«Come fioriva la parola «triste» / nei versi giovanili, ed
ero allegro! / Ora ben so ch’io fui come poeta, / e più
ancor nella vita, / scarsamente sincero; / e la parola che

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più spesso insiste / nella pagina stanca, anzi sgradita, / fa
sì ch’io scioccamente la ripeta, / ma non potrei più dire
«sono triste» / se lo sono davvero». Che è una bella
lezione di letteratura: un repertorio tematico non ha
senso letterale, e non è psicologicamente «vero» neppure
nel più egotista dei poeti lirici. Moretti ci costringe a ri-
vedere quanto c’è di presunto e di realmente significan-
te nella poesia crepuscolare: «La strofetta all’antica /
non lo sai perché piaccia. / E una piccola ombra che s’af-
faccia / a dir più che non dica».
Gli anni della fioritura crepuscolare sono quelli in cui
i giovani poeti si vergognano di essere tali. L’unico che
soffre non tanto di essere poeta quanto di non esserlo é
l’ingenuo fanciullo Corazzini, il romano morto di tisi a
ventun anni nel 1907, famoso per quattro o cinque poe-
sie di trasparente e favoleggiato patetismo. Tutti gli altri
fanno della necessità storica virtù e mestiere; e la vergo-
gna é dichiarata con ironia da Gozzano, con allegria dal
funambolo Palazzeschi, con malizioso disincanto da Mo-
retti. Dietro la loro maniera rinunciataria e masochistica
c’e il rifiuto traumatico della pseudomazionalità civico-
borghese, della insidiosa sontuosità verbale del classicismo
dannunziano. Il Vate é un totem che viene debitamente
ucciso e le cui spoglie sono spartite e inghiottite un po’
da tutti. E cosi possibile confermare e sviluppare una con-
venzione ‘scapigliata’ (gia fissata nel secondo Ottocento):
quella del poeta senza destino, gettato nell’universo, but-
tato in un angolo, orfano della società e delle muse, nau-
seato dell’oratoria.
Ma questo poeta umiliato è felice, benché lo dica assai
di rado, di aver scoperto un territorio stilistico sempre
nuovamente percorribile: col suo realismo interiore (e un
verista dell’anima, o crede di esserlo) umilia la realtà. Dai
fenomeni della natura, dalla citta industriale, dagli og-
getti di una civiltà sconnessa e sempre più precipitosa e
violenta, cerca di trarre gli inventari più reietti, le prezio-
sità più povere, l’esemplare o il catalogo di analogie che
esprimono lo sperdimento, la fiochezza, la desolazione,
l'estraneità. E' famoso l’attacco di una poesia di Moretti ap-

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parsa in volume nel 1915: «Piove. E' mercoledì. Sono a
Cesena, / ospite della mia sorella sposa, / sposa da sei, da
sette mesi appena». Questo tono distaccato e un pò di-
stratto e un graffio alla realta degli altri. C’è anche chi
reagisce con tratti burleschi e provocatori, o chi, come Un-
garetti, oserà chiamarsi «poeta» senza attenuazioni nel
momento in cui i panni del soldato in guerra lo ripare-
ranno dalla viltà borghese esponendolo al coraggio di af-
fermare la propria vitalità di «creatura». Il poeta, co-
munque sia, ha cessato di sentirsi demiurgo e visionario;
per diventare, però, un sottile persuasore di equivoci e di
piaceri storti.
Si sono visti fin troppo bene gli aspetti languidi e pian-
gevoli della poesia crepuscolare, si è vista l’ironia, non si
è fatto gran caso alla perfidia e all’ambiguita delle mano-
vre crepuscolari, non si e visto bene quanto di ‘decaden-
te’ (dal punto di vista, almeno, tematico dell’agonia ro-
mantica) viene sottilmente macerato in poeti dall’appa-
renza cosi inoffensiva. E dire che Moretti nella prefazione
a Poesie scritte col lapis (1910) citava con raffinata inten-
zione di espressivita addirittura Oscar Wilde. E sarebbe
bastato dedicare una non frettolosa indagine psicoanali-
tica all’incantevole crudeltà di un poemetto, molto Primo
Novecento, come «Il sogno di Pasquetta» con quella ser-
va sognatrice che uccide «per sbaglio» la piccioncina in
luogo del piccione maschio compiendo cosl la simbolica
eliminazione della padroncina rivale vincitrice in amore!
E lei lo sa, di essersi presa una «dolce vendetta»!
Non ci stupiremo, dunque, se Moretti tornando da ve-
gliardo alla poesia vi si ritragga sempre meno tenero. Am-
miriamo invece, e questa e stupefacente davvero, la sua
inesorabile grazia e bravura nel parlare di sé, caso forse
unico di antico-moderno: «Scrivere è malattia com’é buo-
na salute. /   / Scrivere e proprio tutto, amare è disama-
re, / volere il bello e il brutto, tenersi monte e mare».
Scrivere versi è ancora per lui «parlar di sé all’infinito».
Senza poter rinnegare il suo pascolismo di origine (non é
questa la sua novità), Moretti ha imparato a straziare un
pò il verso, che tende sempre a venirgli argutamente ac-

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cettevole. E per uno che continua a poetarsi nello spec-
chio e inevitabile la civetteria: «La parola più breve e la
più infida. / Si chiama io. /   / Nel cimitero una fossa,
IO. / Parola orrenda, l’altra orrenda è MIO. / Ma qualche
volta é come un chioccolio». Ciò che conta per noi e che
nei suoi modi di moderno-antico si dichiari una compia-
ciuta irrisione, una grinta sottopelle, il gusto di mandare
la gente alla malora e di godersi le fanciullaggini della vec-
chiezza.
Vorrebbe cacciare scarabei, e vuole l’ovetto caldo a fe-
roce dispetto di tutte le delizie supreme e gli emblemi fru-
gati dai suoi colleghi: «Ma se invecchiano i miei / anche
stingono i vostri, / sono gli stessi inchiostri, gli stessi pia-
gnistei... ». Dice che essere assente, indifferente, contro, è
«avanguardia »; ma poi ha un pensiero, una mossa da
grande esorcista carico di rughe: «Ma no, ch’io non fui
mai segnato a dito / né fermato per via quando scantono.
/ Fossi il primo ad accorgermi che sono / finalmente sva-
nito!». Restato cosi a lungo a sbeffeggiare nell’ospizio
del mondo, sogna di esserne espulso per indisciplina. Si
piace quando é bilioso, si apprezza quando morde, si con-
sola di brucare insalata con la sua tartaruga, di snobbare
le dame che lo cerimoniano dandogli la medaglia.
Chiamiamolo pure: il vecchio crepuscolare d’avanguar-
dia. E ammiriamo il suo sogghigno nitido di sopravvissu-
to, di longevo testardo e nascondino, più variato e disin-
volto e di musica più stramba di quand’era giovane. Così
contento della propria «carica nell’anca», e bravo nel si-
mulare di aver eluso il destino.


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