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giovedì 10 maggio 2012

Com'è la vita di questi tempi?




dieci domande di silvia redente,alessandro chidichimo & compagni ad Alfredo Giuliani 
  1. E’ possibile pensare ad una scrittura immediata? Una scrittura che non sia riscrittura, che non viva anche la lotta con il mezzo espressivo e che non viva di ritorni indietro di cancellature?
  2. La scrittura quanto vive di rimandi, di contesti letterari e non? E a seguire, è possibile una nozione di originalità e singolarità autoriale?
  3. Quale pratica di responsabilità della parola è legata ai diversi mezzi, si pensi allo scrivere e annotare a penna sul notes e allo scrivere online su internet. E’ possibile una parola irresponsabile?
  4. Che legame allora potremmo segnare tra scrittura e identità, tra artigianato scritturale e segno personale?
  5. E forse l’idea di una presenza, la possibilità così facilitata di tastiera e mouse con l’illusione della perfetta formattazione data dallo schermo, non crea una falsa responsabilità: il poter dire tutto e sempre che diventa un balbettare confuso, una barbaria della lettera?
  6. Molti affermano che le “nuove tecnologie” stanno decostruendo la scrittura in vista di uno strapotere dell’oralità. E’ lecita un’affermazione del genere oppure rivela un pensare solo ad un testo dialogico, scopertamente e banalmente dialogico dove l’altro è segnato ed è spesso preteso dalla possibilità di una risposta immediata?
  7. Alla fine non si nasconde “l’altro” tanto immaginifico quanto reale a cui ci rivolgiamo nello scrivere, moltiplicando in questo modo attraverso la pretesa di una presenza le assenze?
  8. Eppure proprio la presenza in cambio dell’assenza dell’autore tacita nel testo è quella perseguita dai media. Ma come potremmo tracciare una mappa delle specificità della scrittura rispetto all’oralità anche alla luce di questi nuovi media? Su che spazi si deve attestare designandoli come propri la scrittura?
  9. Ancora di più: c’è un’idea di testo che precede un possibile testo orale e uno scritto, oppure le due diverse modalità si dipanano e si regolano secondo strutture proprie? Oppure sono sempre intrecciati con la preminenza prima dell’uno e poi dell’altro alternativamente in modo che nessun testo orale non è scrivibile, nessun testo scritto non può essere raccontato intorno al fuoco?
  10. Domanda paradossale e ingenua: ci sono sensi propri dovuti o demandati alla scrittura e altri ad appannaggi o esclusivo dell’oralità?
  11. Sul lavoro del poeta. Rispetto ai nuovi orizzonti espressivi, rispetto alle arti performative e alla video arte, che ruolo e che presa di posizione (se ce n’è una caratterizzante) riguarda da vicino il poeta?
  12. Quanto la scrittura poetica ha a che fare con l’oralità e quanto invece è pratica che si riferisce esclusivamente al lavoro della scrittura? In questo senso se i nuovi media spingono verso un’oralità diffusa, quale pratica poetica nel nuovo orizzonte?
  13. Oggi che ruolo sociale riveste o può rivestire la poesia se si facesse carico di una parola responsabile, di una “parola piena” e tanto spendibile perché poco illustrabile visibilmente nella pubblicizzazione della società. Visibile solo attraverso il suo corpo, la lettera, senza reading da serata televisiva, senza vizio di ambiguità mercantesca?
  14. Quale futuro per la scrittura?




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Alfredo Giuliani
LA POESIA È UNA COSA IN PIU'

Non ricordo quando ho scelto la poesia. Da bambino leggevo i libri e i giornali
che leggevano tutti i bambini; e forse qualcuno di più: favole, avventure, viaggi.
Tra gli undici e i tredici, mi vedo affascinato e immerso, non so proprio perché,
nel teatro: Goldoni; Alfieri; Shakespeare (in traduzioni ottocentesche), Metastasio
(Didone abbandonata e Attilio Regolo). Dopo i tredici devo aver cominciato
con i romanzi (Dickens, Stevenson, Dostoevskji, Dumas). Verso i quattordici divento
lettore onnivoro, ricevo in regalo tutti i volumi della collana «I grandi
scrittori stranieri» UTET (saranno stati un centinaio) e lì scopro Baudelaire e
Shelley (tradotti in prosa). Fu allora, tra i quattordici e i quindici anni; che l'interesse
per la poesia prese un certo sopravvento? Può essere, ma non ne sono affatto
sicuro. Al ginnasio ebbi per un certo periodo un professore dannunziano.
Amavo Leopardi e trovavo D'Annunzio detestabile, anzi repellente. Non sapevo
ancora niente della poesia "moderna". Ma ciò che ricordo come un trauma incancellabile è la prima lettura di Rimbaud. Ero sui quindici anni e qualcuno mi dette
Una stagione all'inferno e le Illuminazioni tradotte da Oreste Ferrari. Ero incantato,
e sconvolto dal venire a sapere che quei poemi in prosa, scritti da un ventenne,
risalivano al 1873-74. Stava per scoppiare la seconda guerra mondiale e io,
che iniziavo il liceo, avevo messo un piede nella lirica "pura" mentre l'altro correva
con gli esametri dell'Odissea (è dal mio maestro di liceo, il giovane Bruno
Gentili, che mi venne inoculata la passione per la metrica). Eppure fino ai diciannove,
venti anni non tentai di scrivere versi. Mi sentivo inadeguato, immaturo, come avrei potuto competere con Rimbaud?

Appena finita la guerra, assorbiti i Lirici nuovi di Luciano Anceschi, lette le prime
poesie di Eliot apparse in italiano, provo un altro bellissimo choc; scopro
Dylan Thomas. In quegli anni '47-'48, devo essermi detto: è troppo stupendo,
il riuscire a scrivere poesie così: bisogna tentare tutto, anche se il rischio di fallire
è forte. Se fosse vero che il genio è una lunga pazienza, io un po' di genio dovrei
riconoscermelo. Ho avuto molta pazienza, mi sono lungamente ostinato. Tutto il
mio lavorìo critico di anni è stato rivolto non allo scopo di farmi un mestiere, ma
di aprirmi qualche possibilità reale, visto che sul talento spontaneo non potevo 
contare. Una attitudine al metodo e alla comprensione critica l'avevo. Da ragazzo
m'ero fatto, per mio uso e consumo, una classificazione delle poesie che venivo
scoprendo, a scuola e fuori della scuola, Anzitutto: le poesie che mettevano in
musica le cose di questo mondo. Quelle di Leopardi per esempio.
L'infinito e Il sabato del villaggio potevo connetterle in qualche modo alla mia
esperienza della vita. Per quanto scarsa e immatura fosse la mia esperienza reale,
potevo capire la bellezza delle poesie leopardiane immaginando una mia possibile
coscienza di quelle realtà, Dopotutto, anche per me il sabato era «il più gradito
giorno» e l'idea dell'infinito doveva avermi visitato, sicché potevo fingermi di
sentirne la sublimità. Poi c'erano le poesie che trattavano cose dell'altro mondo,
L'espressione (Cose dell'altro mondo!) l'avevo assimilata felicemente in casa.
Ricordo il tono indignato, melodrammatico o comico, con cui quell' espressione
polivalente fioriva nell' eloquio vivace di mia nonna e di mia zia mentre scuotevano
la testa o sollevavano le braccia al cielo. Nella mia classzficazione, l'altro mondo
non era necessariamente l'aldilà, il regno delle ombre. L'ampiezza del mio
concetto ragazzesco la devo a quelle care parenti: cose dell'altro mondo erano tutte
le cose abnormi, meravigliose, fantastiche, buffe, mitiche che animavano i poemi
omerici e la Commedia di Dante. Le poesie che raccontavano cose dell'altro
mondo si capivano indipendentemente dall' esperienza personale (magari era utile
aiutarsi con le note).

Quando scoprii le Illuminazioni di Rimbaud, la mia classificazione si arricchì di
una terza categoria (necessaria anche per il fatto che le poesie erano scritte in una
per me inaudita prosa), dove andavano a collocarsi i testi che non si potevano capire,
ma soltanto sentire, dato che non trattavano cose di questo o dell' altro mondo, ma
cose indefinibili, visioni, allucinazioni esistenti forse soltanto nel linguaggio del poeta.
Il buono dell'ingenua e sommaria classificazione fu che essa mi permise di accettare
la sovrana autorità di tutta la grande poesia, la quale tratta imparzialmente cose
di questo e dell'altro mondo, nonché le cose che stanno in nessun luogo se non
nella poesia stessa. E la poesia cosiddetta "minore", come si potrebbe fame a me-
no? Non butterei mai via le ariette di Metastasio o le odicine del Savio li in favore
della Gerusalemme liberata, che trovo magnifica. Non riuscirei a scrivere un poema
epico o un intero libro di sonetti. Mi annoierei a morte. Quando ho concepito Il tautofono pensavo che anch'io avrei finalmente scritto i miei «cento canti» in quella forma, che avrei dato fondo all'universo patologico-buffonesco della lirica.
Ma dopo lo sforzo di parecchi mesi (in più riprese sono stato circa tre anni dietro a
quel progetto), mi sono stancato, la scrittura diventava falsa; forse avevo imparato
troppo bene il meccanismo, le variazioni sul tema non m'interessavano più. 

Il personaggio che parla nel Tautofono non è sempre lo stesso; in ogni caso, è una
voce adolescente o poco più che adolescente; è quel ragazzo mattocchio, ardito,
naturalmente surrealista, una sorta di Amleto demenziale e borghese, che io ho
immaginato rivisitando la mia adolescenza in espressa. Tutti sappiamo che
l'adolescenza è una fase di pienezza indifesa, di avventure percettive dove
l'immaturità gioca un ruolo positivo-negativo straordinariamente intenso. È il momento in cui l'inconscio e la realtà esterna si pensano nello stesso atto di pensiero. Bagliori e frane, espansioni e accartocciamenti dolorosi, entusiasmo e disprezzo si alternano velocissimi. È l'epoca della vita nella quale ognuno, uomo o donna, prima di essere
deformato dalla sua condizione sociale, quale che sia, è visionario e insieme ha una
illogica ragionevolezza. Rimbaud è stato il poeta di questa dimensione adolescenziale mai abbastanza esplorata. La mirabolante adolescenza è una catastrofe, le società se ne premunisce, fa in modo che questa transizione nella totalità del percettibile, dell'immaginabile, del desidera bile, questa crescenza pericolosa e irresponsabile, diventi una iniziazione alla routine, scompaia senza lasciare, possibilmente, tracce. L'adolescenza è colma di sensi, e non ha senso, è un'eruzione di significanti senza significato. Territorio dissestato, affascinante, concreto e fantasmatico, che forse non ho mai inteso abbandonare.

La poesia che più mi tocca è quella che si tiene alla natura tragicomica del discorso. La passione di spiegarsi è il cuore della poesia enigmatica. Parecchi anni fa - e
fu un gesto di insofferenza per le riduzioni ideologiche, contro le ottusità di coloro
per i quali la poesia non è un' esperienza - dissi forse un po' troppo recisamente
che la poesia non è una forma di conoscenza, ma un modo di contatto con la realtà
linguistica (alterità, estraneità del linguaggio con cui la poesia si misura e di cui s'innamora). Ebbene, è probabile che io avessi adoperato involontariamente il termine «contatto con la realtà». Ora, non soltanto l'alterazione del contatto vitale con la
realtà è il nucleo del concetto di schizofrenia, ma il contatto è per Minkowski la
sorgente autonoma del linguaggio; contatto per natura ambiguo, che non si esaurisce nell'esplicarsi che è sempre alla ricerca della propria definizione. Facendo agire in me tale nozione del «contatto» combattevo il terrorismo ideologico dei moralisti letterari, lo rovesciavo scoprendo che esso era la maschera del terrore che il linguaggio ha di se stesso, o aveva allora. 
In un passo delle Ricerche filosofiche, Wittgenstein osserva: «Tu dici che la parola
"dolore" significa propriamente quel gridare? Al contrario,l'espressione verbale del
dolore sostituisce, non descrive, il grido». Alla poesia tale osservazione
linguistica sembra ancora troppo semplice. Come può la parola "dolore" - con
la sua povera immagine di suono - sostituire il dolore del grido? Per sostituire il
grido debbo pensarlo, diventare grido. Posso sentirmi ostile a quell'essere grido, 
oppure docilmente vinto dalla sua feroce urgenza, oppure,..Il grido,in sé, era un
segno significava se stesso. Verbalizzare, scrivere un grido, non è descriverlo, non
è sostituirlo semplicemente, È comprenderlo in un'altra significazione. Ecco perché
la natura del discorso è tragicomica, Non si sa mai se il discorso è pronunciato
dentro o fuori un pensare (pensare la cosa stessa che si dice), Il discorso è Altro,
ma è anche mio) può significare la mia malattia che non conosco, un essere,
una conseguenza che non penso o non so di pensare, un'eco che mi giunge a
frammenti e di cui ignoro la fonte, La poesia esige il massimo della concentrazione
e dell'indzfferenza. Nel momento che scrivi devi lasciar fare i neuroni, le sinapsi,
o che altro diavolo folleggia in te. Una furibonda poesia di Thomas comincia
con questi versi: «How shall my animaI / Whose wizard shape I trace in the
cavernous skull, / Vessel of abscesses and exultation's shell, / Endure burial under
the spelling wall...». (Come potrà il mio animale, / la cui magica forma rintraccio
negli anfratti del cranio, / vaso d'ascessi e guscio d'esultanza) / tollerare la
tumulazione sotto il muro sillabato ...». La poesia è una cosa in più, ed è sempre
molto meno della gloria cantata dai serafini.
Per orientarsi sui problemi della poesia in un dato tempo, bisogna arrivarci dalla
parte giusta (genio o ricognizione critica che sia). Per leggerla al suo concepimento
e alla sua nascita bisogna aspettarsela. Il nutrimento dell'attesa è il compito
più dzf/zàle tra quelli che toccano al poeta. C'è sempre il rischio che il desiderio di
poesia non sia altro che un sintomo, La transizione è una costellazione di sintomi,
una mancanza, un esaurimento, un baluginare di rivelazioni, attesa e ricerca
spasmodica, Può essere accettata e vissuta come uno svolgimento tranquillo di
punti precedentemente fissatz; passare quasi inosservata o vista come una fiera di
possibilità a portata di mano. Viviamo un sacco di transizioni, ora violente ora af
fascinanti, che oscillano paurosamente da una apocalissi all'altra. Siamo i postapocalittici, sopravviviamo al peggio, sappiamo essere persino felici.

Un momento acuto della transizione fu proprio quello in cui ho cominciato a scrivere,
nel dopoguerra avanzato,fine anni Quaranta. Momento vissuto nella penuria
del nuovo, la resistenza del vecchio, l'incipiente affollamento dei segni, la dissociazione rimuginante (chi è l'io che vuole scriversi? i furbi già sapevano, l'aveva
scoperto Rimbaud, che Io è un Altro), la schizofrenia planetaria, l'opacità o
l'illusoria trasparenza di tutte le tradizioni. Abbiamo sfidato tutti i linguaggi, deliberatamente; non si poteva fare altrimenti, Un enorme lavoro di frammentazione
e ricomposizione, che, devo dirlo, mi ha procurato il piacere di scrivere e penose
intermittenze, durante le quali mi sembrava di non aver più niente da scrivere,
di dover ricominciare da capo per la cento millesima volta. Che mi abbia condizio
nato la poetica delle Illuminazioni? magari piccole piccole, grottesche, a mala pena spiritose. Mi ha aiutato la passione per la metrica. Una volta il tessuto metrico,
la texture, faceva da sfondo prosodico; si stabiliva un'armonia statica e sempre
ritornante che il poeta variava con sottili sfumature, o talvolta rompeva mediante
intervalli «trovati», durate e intervalli nuovi, discreti, che campivano sullo sfondo
dello schema metrico, padrone non assoluto ma onnipresente. Ma quando lo
sfondo è consunto, indistinto, sfilacciato, insomma da buttar via? Mi sono trovato
a ricostruirmi una prosodia sugli accenti sintagmaticz; a non sentire più la mi-
sura delle sillabe, ma quella dei monemi (quando ho letto Martinet ho capito che 
mi stavo regolando sui monemi senza averli individuati così chiaramente, né tanto
meno denominato. Martinet mi ha dato la chiave che cercavo).

È stata, finora, una bella e tormentata avventura. Non rinnego niente; non ho niente da superare. Sto scrivendo un solo libro, che va dal 1950 a domam; spero. E le date per me contano poco. Ho una pretesa: ciò che ho scritto nel 1950 deve suonare attuale quanto ciò che ho scritto ieri. Sincronicità di tutti i movimenti, le svolte, gli scarti, i ritorm; le riprese, le fughe in avanti, perché no? Oggi ho preso una nuova svolta, il senso è nel titolo della poesia che appare, e ne sono felice, in questo fascicolo del "Verri", E infine: è stata la poesia a cercare me, anche se io l'aspettavo, me la desideravo. Mi cerca e poi mi dimentica; mi lascia e io mi dimentico di lei. Poi ci ritroviamo e ci capiamo al volo, facciamo follie o chiacchieriamo sereni. La routine non fa per noi. È una relazione che sarebbe straziante, per me, se non mi comportassi, con lei, da fedele opportunista.
"Il titolo della poesia è Ebbrezza di placamenti. Il fascicolo citato de "il Verri" è il n. 11-12, 1989, dov'è stato pubblicato originariamente questo intervento.





PERCHE' LASCIO LA DIREZIONE DI « QUINDICI »


di ALFREDO GIULlANI

«Quindici» è un giornale fondato sulla fiducia interna,
non sulla routine professionistica. Un gruppo
di scrittori lo ha inventato dal nulla, e io sono uno
di questi. Credevamo di poter fare una cosa che allargasse un
poco la nostra udienza, e l'abbiam fatta.
Abbiamo avuto successo,più di quanto noi stessi speravamo.
Il merito non è mio, né del direttore editoriale.
Il merito è della. fiducia reciproca che ha sorretto
tutti noi. Io stesso, quale responsabile, non ero
che un fiduciario del collettivo. Nessuno mi ha tolto
la fiducia, e io la conservo da parte mia per tutti i
collaboratori. Dunque perché, «sul più bello», ho
deciso di andarmene?
È difficile da spiegare, e mi ci proverò. Forse
occorrerebbe un lungo discorso, una cronistoria minuziosa.
Negli ultimi tempi mi estenuavo, più che
a' raccogliere il «materiale», in lotte sempre meno
allegre per bloccare le infiltrazioni di materiale
oscuro e demagogico. Il mio crescente disagio nasceva
dalla sensazione sempre più opprimente di essere
entrato, quasi senza accorgermene, nella Ortodossia
del Dissenso. Sia chiaro che io sono stato felice
di pubblicare nei numeri scorsi certi documenti: le
carte rivendicative degli studenti dell'Università di
Torino, la teologia della violenza, la protesta dei cittadini
di Orgosolo, sono fatti che noi abbiamo portato
per primi all'attenzione di una grande cerchia
di, lettori, fatti che era giusto parlassero con il loro
linguaggio. Ma il materiale di cui è composta una
rivista è forse meno importante dell'atmosfera in cui
viene proposto. Il passaggio dal documento, o dall'argomento,
«giusto» al documento, o all'argomento,
«facile» avviene in maniera percettibile ma subdola.
Comincia il ricatto psicologico della cosa di cui
si deve parlare. Il Dissenso diventa una merce che
bisogna fornire. Non si ragionapiù se non col Dissenso
Comune.
Il disagio s'è precisato: è il rifiuto di prestarsi al
consumo del Dissenso. Mancano i nessi, è confusa
la prospettiva politica. Allora lo stesso «materiale»
che posto in una precisa coscienza riceverebbe la tua incondizionata approvazione, ti appare come puro
alibi, deposito di angoscia, rogna politicosa.
Un giornale come il nostro dovrebbe essere aperto
a errori e fantasie, testimonianze contradditorie e
sani litigi (questo, infatti, è puntualmente avvenuto);
ciò che «Quindici» non può sopportare, senza snatu~
rarsi, è anche il solo sospetto della pressione irrazionale
e della prevaricazione (esercitate ora per soddisfare
l'ipotetico lettore, ora perché tira il vento).
Il giornale non è un fatto compiuto, la sua struttura
interna potrà anche essere riveduta. Ma la mia impressione
è che sta diventando un'altra cosa da quella che
volevamo; e, naturalmente, posso sbagliarmi. Comunque
sia, prima che comodi equivoci siano messi
in giro, dico esplicitamente che non ci si può costringere
perpetuamente nel falso dilemma: «credi o no
alla rivoluzione?» - perché sappiamo tutti benissimo
(e abbiamo lottato negli anni scorsi per saperlo
fino in fondo) che, sia chiaroveggente ~ sprofondi
nell'incertezza, Io scrittore vive sempre sul filo e potrà
rivelarsi rivoluzionario nell'incertezza o pompiere
nella chiaroveggenza; ma pei, chi è che vede tanto
chiaro, oggi?

Com'è la vita di questi tempi? Un parossismo di catastrofi. 
E che cosa vuol dire, poi, di questi tempi? Vuol dire ai queste settimane, di questi mesi, anni, decenni, secoli? Fate voi: di questi tempi è un presente allegorico. 
Resta inteso che a noi pare scrittore degno di nota soltanto chi è capace di significare, in piccolo o in grande, la condizione emotiva e mentale dell'oggi incombente. La condizione reale, effettuale, e quella possibile. Nella categorie del Possibile si muove la lìbertà dello scrittore. Universi rovinosi possono essere raccontati con Grandissima calma. L'ironia può farci partecipare nello stesso istante, nella stessa frase, al tragico e al comico. 

Non si può raccontare il parossismo col parossismo, la catastrofe con la catastrofe. Bisogna introdurre nella scrittura la forma ipotetica dell'allegoria, la quale consente di «straniare», di prendere le distanze (per vedere meglio). Bisogna lasciar credere che ci s'impirglia nell'assurdo, nell'incongruo, nei parossismi fittizi dèll'immaginario; come accade generalmente agli umoristi, che si contentano di tali effetti. Bisogna avere l'aria di non dire niente (niente di reale), mentre si sta facendo il possibile proprio per dire le cose come stanno. 

Nella scrittura letteraria, l'ironia non è una occasionale figura retorica, è una forma squisitamente allegorica, che pervade l'intero testo, sia esso fulmineo come un aforisma (a proposito, me ne viene in mente uno di Elias Canetti: «Il cretino s'è impadronito della catastrofe»), o lungo come un romanzo. 

L'ironia che si espande nei luoghi comuni del linguaggio e li rivoltola e li trascina verso precipizi dei senso o imprevedili sqúarci di bellezza malinconica; assistere a questo processo: i luoghi comuni del Linguaggio che diventano poesia, godímento, tracce esistenziali di un mistero buffo che si svolge inarrestabile nella mente. 

Ecco, tutti i personaggi di Klobas si dedicano anima e corpo alla faticosa impresa, tutto sominato gratificante, di sopravvivere emotivamente e mentalmente. Perciò sentono e agiscono dentro una costante tensione allegorica negli affollati labirinti della vita solitaria. Immersi nel senso comune, passano da una catastrofe all'áltra rendendo morbido e duttile il parossismo della normalità (la 
quale e’ sempre un’altra cosa, la normalita’ e’ catastrofica) personaggi sospinti a ruzzolare, scivolare,capovolgersi bearsi di stupidate liberatorie nellimmaginario delle frasi. Le loro parole non si arrendono mai. 

La sopravvivenza emotiva e mentale comporta I' elaborazione di tutte le ipotesi, I' esecuzione di strategie multiple, di sempre nuove mosse tattiche. Il ridicolo, sempre in agguato, viene disarmato a sorpresa dall'impassibilítà, inghiottito e metabolizzato. Le parole del sopravvivente, puntigliose, instancabili, in perenne colluttazione con I' esistente e con l'inesistente, daranno «pessimo spettacolo di sé», ma ce la faranno. 

Prospettive, e sembra andare educatamente per i fatti suoi, estranea alla propria loquacità, 
indifferente álle deviazioni demenziali, agli imprevisti che attira, agli éffetti Comici che produce. 

Non vorrei fare torto alla struttura a suo modo compatta del libro, ma sta di fatto che in molti dei tredici testi, non in tutti, ho trovato un autore che ha maturato alla perfezione i propri motivi e che ha motivato con maggiore sicurezza, sotto i colpi dell’esperienza, lo straniamento della propria scrittura. 

Temi che cosi’ enunciati....se non fosse per la pertinacia allegorica che li trasforma in peripezie del pensiero intenso. 
L'ironia non è ironica, spiegò una volta Alberto Savinio ai suoi lettori; diversamente da quanto si crede generalmente, l’ironia e’ 
seria. Quei temi risibili, nella scrittura di Orari contrari, toccano gli abissi quotidiani del senso e dell'insensatezza. Per convincersene, basta leggere con attenzione i due testi più «teoricí» del libro: Tempo supplementare e Lente deformante. 

l1 primo potrebbe valere come una irresistibile conferenza sulla lotta contro il tempo. Qui le frasi si concatènano in sequenze così ben consegnate e montate che perfino I luoghi comuni prescelti nel percorso paradossale suonano come gag. Potremmo anche sussultaré di filosofico riso. L'altro testo, Lente deformante, descrive accuratamente la condizione dello scrittore che vorrebbe descrivere la realtà tale e quale, così come gli accade o gli accadrebbe di percepirla o allucinarla o ricordarla da instancabile osservatore di fenomeni e scrutatore di destini. Descrivere la morte in persona, fin dal suo primo timido apparire, mentre 
egli sta morendo. Insomma serivere «come fosse lui stesso la morte che si autodesciive», morire con la penna in mano, questo sarebbe il massimo dei realismo e lo ripagherebbe degli enormi sacrificí compiuti per identificarsi con le parti in causa. Il libro termina con una svolta inattesa, poche righe in cui l'allegoria non è più ipotetica, non è più dimensione puramente mentale perché ha preso corpo in una realtà delicata, felice e inevitabilmente fragile