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giovedì 24 dicembre 2009

Laura Fasciani Giuliani

Laura Fasciani cura le pubblicazioni in rete su Alfredo Giuliani

mercoledì 23 dicembre 2009

Biografia Alfredo Giuliani

Alfredo Giuliani (Mombaroccio, 23 novembre 1924 – 20 agosto 2007) è stato uno scrittore, poeta e critico letterario italiano, appartenente al Gruppo 63.

Alfredo Giuliani si laureò in filosofia nel 1949 e fu docente di storia della letteratura italiana moderna e contemporanea presso la Facoltà di Lettere dell' Università di Chieti.
Negli anni '50 iniziò ad occuparsi, come critico militante, della rubrica di poesia sulla rivista "Il Verri" e continuò con impegno questa attività fino al 1961.
Tutte le recensioni che sono apparse sulla rivista sono state pubblicate nel 1965 dalla casa editrice Feltrinelli con il titolo "Immagini e maniere".

Nel 1955 venne pubblicata la sua prima raccolta poetica dal titolo "Il cuore zoppo".

Fece parte del Gruppo '63 e nel 1961 curò la pubblicazione dell'antologia "I novissimi", uno dei testi fondamentali della neoavanguardia, nella quale sono raccolte molte delle sue poesie accanto a quelle di Edoardo Sanguineti, Pagliarani, Porta e Balestrini.

Fu direttore responsabile della rivista del Gruppo '63 "Quindici" fondata a Roma nel 1967 e collaborò al quotidiano "La Repubblica" e alle riviste "Il cavallo di Troia", "Testuale" e "Gradiva".

Opera

Il cuore zoppo. Con sette versioni da D. Thomas, Magenta, Varese, 1955
I Novissimi. Poesie per gli anni Sessanta, Rusconi e Paolazzi, Milano, 1961, poi nuova edizione Einaudi, Torino, 1965, e terza edizione Einaudi, Torino, 2003
Povera Juliet e altre poesie, Feltrinelli, Milano 1965
Il tautofono, Scheiwiller, Milano 1969
Chi l'avrebbe detto, Einaudi, Torino 1973
Nostro padre Ubu, Cooperativa Scrittori, Roma, 1977
Versi e non versi,Feltrinelli, Milano 1986
Ebbrezza di placamenti, con una introduzione di R. Luperini, Manni, Lecce, 1993
Poetrix Bazaar, Pironti, Napoli, 2003
Furia serena. Opere scelte, con un saggio di U. Perolino, Anterem, Verona, 2004
Dal diario di Max. Pensieri e ridevoli patacchi, Marini, Bari, 2006
Il giovane Max, Adelphi, Milano 1972
Immagini e maniere, Feltrinelli, Milano, 1965, poi ESI, Napoli, 1996
Poeti di Tel Quel, con J. Risset, Einaudi, Torino, 1968
Le droghe di Marsiglia, Adelphi, Milano 1977
Autunno del '900, Feltrinelli, Milano 1984


http://italiano.agonia.net/index.php/author/0030723/index.html

Casa Giuliani

lunedì 21 dicembre 2009

Versi

    

da Il cuore zoppo (1955)


I cacciatori di grilli

Nel campo avanzano a cavallo sulle scope i cacciatori di grilli.

Soffia nel corno di latta il battitore al salto dei cespugli.

Ah, trattieni un poco i pensieri

Come questi trucioli leggeri

Che al filo dei recinti il vento padrone attorcigliò;

A palmo a palmo indietreggia, le spalle mature all’occidente,

Fino al disarmato fortino dentro il petto.

Il dolore ch’ho perso

E che m’ha fatto qual sono, il bimbo vecchio nomade d’amore,

È un idolo di pietra che mai alcun voto interrogò.

Varcano i cacciatori l’ora buona del tempo

Nel crepuscolo dei grilli e degli aromi.

Chiaro come un brivido d’ossa nell’oscurità,

Scende meco per sempre il bimbo, la mente piena di mani,

E salta la cespugliosa età.


da Povera Juliet e altre poesie (1965)


Predilezioni
II

Non c’è rimedio al disordine d’aprile,

scossa di paradiso dei cieli che spurgano

e rovesciano l’inv 212r172c erno nei fossi, dei venti

che s’irradiano asciutti di colpo.

Non c’è rimedio a quei nostri disguidi,

al lezzo delle rose, notturne per la mente

e per l’aria gelose. Amore sempre fiorisce

prima del conoscere, in un buio tremore.

E il rammarico non apre questa porta chiusa,

fa misera la lotta, tradisce solitudine.

L’odore disfatto in scirocco soffoca le sere;

e non c’è onore, né calma, né tregua.

III

Prendi il nero del silenzio, tanto parlare

disinvoglia la nuca, in sé pupilla, palato

di cane, oppure pensa le notti che risbuca

nel gelo il firmamento dei gatti, amore.

Prendi l’alito dell’ansimo nero, così dolce

in punta di lingua, fumo di mosto s’arrotola

sulla fronte, mescola l’osceno e l’assurdo,

cambia di posto, e sia come non detto, amore.

Prendi il volo nero, valica l’altra tua vita,

voltano il fianco i terrori, non gridano più.

Un sorso d’alba, che nausea, è splendido ora

questo barbaglio stanco, mucosa fiorita, amore.


Azzurro pari venerdì

Come devo comportarmi, domandai per sapere (per avere,

invece, si chiede) se l’ala nera sarebbe infine abbattuta.

L’astrologo disse: (il destino): generalmente buono,

sarà accaduto e non dovrà rimpiangere, di fianco la luna

falcata, radiosa, considerando l’epoca, una piccola soddisfazione

(in pieno giorno galleggiare nel prato), la posizione

potrebbe indurla, di Urano o l’inverno che viene dagli spazi,

coincide con qualche amica o parente, non esiti a farlo,

procurandole notorietà (rumore di cesoie dal giardino),

allo scopo discreditarla, tenga sempre con sé il talismano,

sarà un mese piuttosto monotono.

E lo psichiatra disse: (a proposito del sogno): l’immagine

del bambino con la merda in mano è il mondo

largo luminoso vuoto stretto oscuro colmo elevato profondo

mobile impuro immobile sudicio contagioso disgustante

accogliente minaccioso illimitato doloroso

velenoso vischioso decomposto penetrante

fisiognomico ignominioso numinoso è il mondo

sanguinoso tagliente spermatico molle terrificante

dissipante vertiginoso appropriante metamorfico

vendicativo scaltro ostinato innamorato sia chiaro

finché non (finisci di penetrare nella penetrazione) ritorni

alla contemplazione (il cancello ha una leggiadra gualdrappa di edera) e

io risposi: che bella pace qui, dove gli oggetti scavano

la loro superficie: volevo voltarmi, ma è fuggita piangendo.


Ball-paradox

per Achille Perilli

Le risorse statistiche della danza sono le elitre, i vessilli

lenzuola di farfalle, limbi di ninfe graffiti, amori

che volano, vascelli arrembanti drogati di larve, emblemi

opachi dell’impaginazione che racconta di scheletrini ermafroditi

soffiati con anima di papavero, di vermi con la tunica, addomi

signiferi di vele, drammi filatelici, smottamenti di miniature

in scroti filanti, astronavi della cenestesia

Achille è un insegnante di ginnastica putativa,

un massaggiatore di lobi balneari, paesaggista per cineteche

di campagna, allevatore di clitoridi libellule, erborista e

cavalleresco pittore di battaglie retrattili

al critico anale, magazziniere, museiforme, più lascivo dell’anitra,

disinfestatore, spazzino, cuoiaio e mercante di stoffe

lascio la stima maniaca del grafico e del diafano perché (sembra,

infatti, che l’arte sia ormai pienamente apprezzata dalla società

per il suo linguaggio muto, e questo è un risultato

fatalmente povero delle meravigliose rivoluzioni di ricchezza;

“così la pittura s’è appagata di aver perduto spazio e mondo,

di cui l’uomo ghiotto avrà sempre bisogno”) perché tutti

entrino

entrino: edili, nautici, archeologi, entomologi, astrologi, mitologi,

psicologi, droghieri, musici, chimici, giudici, figurinai, anacoreti,

avvocati, chirurgici, agenti segreti, detectives privati, politici, bricconi,

spioni e grafologi; e infilino

infilino le perline del calzolaio per il ballo

senz’altra industria che non sia di piacere e amare

un accoppiamento autunnale


da Il tautofono (1969)


Io stesso e il teatro

nei lunghi periodi di silenzio mi sdraio sotto gli ampi cieli di una scala

di servizio o mi appollaio pensando che quei bravi cavalieri cavalcarono

il loro lurido lupo alla scuola di danza fu sempre un bene per me se cerco di capire

quel che sto pensando intrecciare le dita stirando gomiti e pollici

in fondo lei spiega il mantello di lepre sull’erba pelosa come voi che dolce

pulsazione pelvica quando alza il ginocchio e scopre la lumaca il corpo è tutto

in grandezza naturale che avanza come in sogno i movimenti rallentati nel plasma

io non chiudo gli occhi le braccia in posizione di guida su un camion fiammeggiante

il tonno guarda in su tra bordure di salvia scarlatta è verde-blu come le rape

cinesi e dev’esserci un significato nascosto se il pavimento è un vetro nero

e le ragazze affusolate in una città sconosciuta s’inoltrano a tentoni levando

grosse bolle di tenero profumo da sotto i raggi della luna e anche inciampano

ce n’è che ballano sulla superficie vetrosa di un torrente vedo il ricamo

delicato dei piedi la foresta ansima e un esercito di muscoli trasporta

senza capire utili ombrelli sulla schiena finché un gruppo di fuggiaschi in corsa

simula di scaricare la tensione diurna nell’ululato del lupo sono gli abitanti

ora se cerco di capire la nettezza delle sconcertanti onde del corpo immobile

della tigre stordita o uccisa tra i giunchi non permetto al terzo occhio

di eccitare la mia fronte l’ano se ne dorrebbe a tal punto che il teatro credo

opera di mistero e applauso supposta da uomini e bestie intelligenti risorgerà
Favola dell’indigestione

avevo l’acqua in bocca lo stomaco tutto botanico e misi il dito liquido nella zuccheriera

guardando l’abito smesso nero appeso in quel tempo fetale che mi annodarono le caviglie e

mi farà bene riflettevo stupefatto della grande produzione di pensieri essere quasi morto

ne presi uno per la collottola sgusciante e sputai le parole suppurate con polpa e nocciolo

ne spruzzano larve bianche arruffate provando una fiducia simbolica che sto per grufolare

in sogno l’acqua si apre fine delle bollicine riabbottonare il cappotto spiovere di berretti

scricchi di scarpe lucide di freddo e fumanti mani di lana che scalpitano corte illuminata

da una grande lumaca elettrica sorniona ai turbini piumosi branchi d’inchini offe parrucche

pervincoli balenanti da gole mogie di veneri poltigliose è il momento confuso di stornare

l’abiezione attento a scaracchiare nella segatura è un segno della grazia oh cupa slogatura

del caso mi distraggo al soffio di stalle afrodisiache “Lucullo!” esilarava la zia dal forno

totem e gas il tredicesimo mese sangue coniglio scava la casa quartana di esplosioni

[la crema

prima singhiozza un batracio bonario lussurioso quindi un pesciolino languido agita la

coda della serva poi quasi vinto dal sonno una papera muta borbotta sotto i testicoli

per me adoratore di cavalle frusciò di corsa deliziandomi l’ippomane urlo occhietti

[nel buio

cerato di pellicole lunari inseguivo straziato l’immane inquisizione dei nomi animaleschi

palpavo lente frotte torve e tribadi come vacche percorrendo limbi ventilato di vituperio

divorando le dita nel colletto tignoso ah i nomi erano tutti inutili ridevo forte buffo

mistico pupacchiotta è il crampo dell’uccello guardiano l’autunno del pipistrello l’estasi

del pappatacio lo spirito atteso dove devi tornare stanotte che ha digerito solo il coniglio
Episodietto della sera

la pasticca è caduta dalla garza turchina di schianto nell’afa gonfia dei battelli a vela

poi la pioggia di latta toc tic toc tic branchi di bollicine affiorano la raffica scialba

scopre l’acre odore di acquitrino allega il palato nel dito maniaco dei suoi capelli e ci

voltiamo alla passione della sera specchiante nelle grinze delle vetrine parole spruzzate

di mare verso l’oscurità che s’accapiglia intorno al buco in cui scivolano le dita accese


da Chi l’avrebbe detto (1973)


Chi l’avrebbe detto

Chi l’avrebbe detto, invitato a pranzo scherzavo,

impedimento accecante, mordevo il cappello, non dicevo

niente: ho il naso finto, si spengono le luci, finché

scoprono che distruggevo rispettosamente un mondo;

ragazzi! invece era davvero lo spolpamento del sangue.

È detto, la chiamo col suo nome ma la costrizione

resta, allungo le gambe ma son corte, mi riassetto,

mi trasferisco da una natica sull’altra, ma la fitta

è qui, nel mezzo; ragazzi! che cosa avrebbe dato quest’uomo

al suo paese se non fosse stato costretto a morire?

Enumero a precipizio, fingo di dormire, emergo dal lago

solo per ridere, metto in guardia l’uccello mortale,

mi riconcilio, volo all’appuntamento, ho bisogno;

mentre decado le brillano gli occhi, rive spopolate dove

vado in punta di piedi, spettri che non sono altro.

Un’ora dopo, grandi sciarpe dai tetti e per le strade,

da vero cristiano che deplora l’Italia, la Cina, il mercato,

toccando la borsa, non avevo nemici, mi tuffo tra i brividi

interni, approvo il tipo freneticamente medio, sono fuori

pericolo, sul piano «Povero cor, che pensi?» cerco l’aria.


da Versi e nonversi (1986)


Mi piace immalinconirmi

Mi piace immalinconirmi sul materasso della pioggia

mentre il tuono trafelato s’allontana col suo fragore

membra viscere nervi s’abbandonano alla molle pantomima

un soffio salmastro lambisce le ossa che scottano

discontinue venerazioni della pigrizia

gola spellata come un logoro tappeto arido di polvere

niente più presagi la presenza è un sacco bucato

puoi perdere tutto lentamente o scaricarti di colpo


Gloria militare

Il mio unico titolo di gloria militare

è la renitenza alla leva repubblichina,

sette mesi di antinaja clandestina

sotto l’occupazione tedesca. Ma di ciò non è traccia

nel mio foglio matricolare. Sono un miles ignoto

della resistenza privata.


Grovigli e gocce

Grovigli e gocce.

Dolori mi lasciano

per una pena più nera.

Anche l’uomo se ne va

lasciando il peggio.

Una volta avevo tempo

perché ero svelto.

Ora che sono lento

non ho più tempo.

Quel chiarore perso,

lanterna che oscilla

sul palo impiccato,

è l’amore che dorme

nell’occhio rovesciato.

La rondine vola per fame,

l’usignolo canta

per mettere in guardia i rivali,

e tu giri, giri, rapace debolezza,

per trovare i tesori

della crudeltà amorosa.

da Ebbrezza di placamenti(1993)


Quanto ai fiori

Quanto ai fiori, ti dirò, preferisco

la circostanza che li pone a nostro agio,

la sorpresa o l’offerta di mattino

in una stanza, o la presenza notturna

che li stempera, li disfa sulla soglia

d’una ospitalità ambita, incongrua.

Oppure devono risplendere al naturale

come quei papaveri sui declivi magri.

Stammi bene, topo!

Un topo trappola nel buio, lui o lei topolastra,

subitanea ombra soffice scatta, freme il bidone,

fisso la coda dell’ombra, urto di panico separa

in trappola; in qualche buco recondito scivola

defecando, scommetto. Ciò che destina rosicchia

e salta, esiguo affarino, la visione imprecisa

ti scappa addosso, sfiora l’ombra tra i piedi

una repulsione d’affetto. Ti rannicchi, brancoli,

t’intopisci, preso e lasciato ansimi in tondo,

t’inverni prudente, da mai a sempre intrappolato.

Che topata la vita, eh, topo?

Once more unto the breach

Ancora una volta ancora una volta (ogni anno

sollevo la schiena e guardo fuori dalla finestra)

il tale pazzo o in cima trovo di colpo debole e svilito

dal tetto alla soglia ruzzolo a terra è normale.

Furioso bevendo camomilla mi aggrappo alla ruota

abbagliante fisso i meriti ripeto la formula

è semplice oh rapace debolezza oh vera illusione

l’occhio scodinzola festosamente esagera nel trucco.

La voce tenerissima sospesa all’eco del tuono

ancora una volta ancora una volta nel mondo morente

e nell’altro i calunniatori infestano i corridoi

gettano ombra sulla porta il dio maligno dà e lacera.

Ancora una volta ancora una volta non insisto

su questo punto sbircio da un mondo che le cose

avvengono blandisco fendo una circostanza compatta

i presagi a stormi (si sarebbe sentita volare una mosca).

Cuore leone

Questa è davvero miseria

non avere niente insomma

È avere eppure niente

È una cosa da avere

un leone un bue nel petto

Sentire lì il suo ansare

Cuore gagliardo cane

vitello orso arcuato

Gusta il suo sangue non sputa

Simile a un uomo nel corpo

di bestia selvaggia

gli stessi muscoli

Leone che dorme al sole

fiuta con le zampe

può uccidere un uomo



21 ottobre 1994 

Perche' tanto furore?

Dopo trent' anni, i ferri sono ancora tanto roventi? La notizia che a Reggio Emilia si teneva un convegno con la partecipazione di quelli che furono i protagonisti della neoavanguardia del Gruppo 63 per una discussione su un trentennio di esperienza letteraria, ha dato il via a scontri. Il "Corriere" ha ospitato in una pagina, accanto a un bilancio distaccato di Edoardo Sanguineti, dure critiche di Franco Fortini e di Enzo Siciliano, che hanno provocato (su "Repubblica") la replica altrettanto dura di Alfredo Giuliani.

Trent' anni sono molti, o sono nulla, nella storia letteraria. Specialmente per un movimento che si voleva fortemente innovatore, significano che tutto e' ormai consumato e che non e' proprio il caso di starsi a guardare la coda. Le rotture piu' violente, nella parte positiva, si suppongono addirittura istituzionalizzate. Ma intorno al Gruppo 63, ecco ancora un furor che sorprende (e gli addebiti sono un po' quelli sentiti decenni fa). Che cosa impedisce la sutura? In Francia, la celebre faida Barthes Picard sulla "nouvelle critique" credo echeggi ora solo nei manuali universitari. Pare bizzarro che la neoavanguardia continui da noi ad apparire, in certi casi, come uno sgradevole malanno giovanile, un' inurbanita' che ha lasciato un po' di sporco in salotto e qualche cassetto scassinato. Nient' altro? Detesto i cinquantenari, i centenari, le celebrazioni a calendario (ma l' incontro di Reggio Emilia voleva anche essere il pretesto per uno sguardo al presente della sperimentazione dei giovani). Comunque, nei commenti e nelle polemiche si e' persa l' occasione per discutere seriamente, a critica fredda, dei meriti e demeriti dell' avanguardia di quegli anni, inventando qualche nuovo modulo per misurare cio' che essa ha portato, anche come seme per il futuro. Importa poco allineare i nomi (Arbasino, Malerba, Balestrini, Porta, Sanguineti, Manganelli etc) su cui il consenso e' largo.
Il Gruppo 63, se e' stato qualcosa, e' stato un ente complesso, in continuo subbuglio nei suoi confini. Personalmente, penso che sia stato, dopo il ' 45, il solo momento di scrollo, di dissesto, di rimessa violenta a contatto con il rapporto di fondo soggetto linguaggio. Poi, si faccia pure tutta la lista degli errori, degli abusi, dei fallimenti. Ma il vero della letteratura e' di distruggersi istante per istante, di essere solo li' dove la si fa; o meglio: dove la si fara' ... Che noia dover rimettersi ai vecchi conti!

Pensiero e immaginazione


Alfredo Giuliani, nella sua prefazione, intitolata “Pensiero e immaginazione”, afferma che questo libro «conduce il lettore in due territori a dir poco inconsueti per la poesia: lo spazio concentrazionario ‘esterno’ della prigione e quello ‘interno’ della tossicodipendenza, in entrambi i casi dietro all’ossessione della perdita di libertà. A Ruffilli poeta interessano tutti gli aspetti della vita e in particolare quelli segnati dalla sofferenza e dal male (il male fisico e il male del vivere)». E continua affermando: « Nella poesia di Ruffilli accade qualcosa che molto raramente si ritrova nell’esperienza egocentrica dei poeti […] Ruffilli, istintivamente, mette sempre in rapporto ciò a cui dà voce con il contesto sociale in cui si muove e parla.»

Canzonette



Nel 1961 Alfredo Giuliani scrisse il libro “I Novissimi. Poesie per gli anni ‘60”, che poi avrebbe dato il via al Gruppo ’63, cioè la neoavanguardia. Giuliani voleva separare la poesia piatta del suo tempo da quella che mise in quella sua antologia, con questi poeti “novissimi”. Seguendo questa premessa Paolo Talanca ha iniziato una ricerca volta ad approfondire il distinguo tra la canzone commerciale, o pop “pop” – che ha degli schemi regolari etc. – con la canzone d’autore, partendo proprio dai cantautori “novissimi”.

Dove Giuliani de-costruiva, per ri-costruire un linguaggio nuovo e particolare – sai, la neoavanguardia e quel linguaggio ricodificato e “rivitalizzato” –, io credo che per i cantautori si tratti di ri-costruire, riprendendo la strada dei vari Conte, De André, Guccini, Vecchioni, certo non riproducendone lo stile ma creando canzoni con uno scopo artistico. E credo davvero che sia lo scopo per cui si scrive a fare la differenza. Ci tengo a sottolineare la frase “non riproducendone lo stile”, anche perché può esserci eredità genetica, ma poi i grandi autori – e io reputo ovviamente tali quelli che ho messo in Cantautori Novissimi –, per dirla semioticamente, riassettano i segni, trovano strade proprie, riscrivono i codici e le categorie,..

Giuliani traduceva

Dalla fine degli anni Cinquanta ai primi anni Sessanta Manganelli, quasi sempre in compagnia di Alfredo Giuliani, frequentava il salotto di Salvatore Rosati che era stato mio professore di Americano a Roma, e poi si era trasferito all’Orientale di Napoli. Da Rosati, ogni domenica pomeriggio si bevevano Martini o whisky: “Un dito in orizzontale o in verticale?” – ricorda Alfredo Giuliani – e si chiacchierava con inglesi o americani o irlandesi di passaggio, con qualche jazzista, qualche pittrice, amanti del Belli e di Norman Douglas, diversi traduttori che si gettavano sull’OED del padrone di casa, illustre traduttore anche lui. Giuliani traduceva di Eliot, Saggi sulla poesia e sui poeti (Bompiani, 1959) e in collaborazione con altri Poesie di Joyce (Mondatori, 1961); Manganelli i racconti di O’ Henry, Memorie di un cane giallo (Feltrinelli, 1962). Una volta arrivò con un ritaglio di un giornale inglese della striscia di Bristow, l’impiegato oblomoviano che parla con il piccione sul davanzale, con la donna delle pulizie e mai mette mano alle pratiche giacenti. Era deliziato da quell’eroe di dolce pinguedine e malinconica abulia.

 

(V. PAPETTI, Manganelli anglomane, non anglista, introduzione al I vol. di G. MANGANELLI, Incorporei Felini, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002).

venerdì 18 dicembre 2009

Il giovane Max

Questa prima e attesa opera narrativa di uno dei protagonisti dell'avanguardia è un viaggio, non attorno alla propria camera, ma nei deliri verbali della nostra società, negli universi linguistici della chiacchiera quotidiana, inesauribile nella sua ingordigia, che vuole tutto definire e digerire e che, anziché avvicinare il mondo reale, moltiplica quelli possibili. A questo farneticare l'autore applica una terapia 'omeopatica', fingendo di esasperarlo e sviluppandone così le variazioni più sorprendenti : dalle battute della mezzacultura ai volontari ed estranianti refusi tipografici, dalle scurrilità più stilizzate alle iperboli della oscenità plebea, dalle fantastiche etimologie nella linea che va da Dossi a Gadda alle invenzioni nevrasteniche di un Jarry.



La seconda parte è costituita da un glossario, che spiega i neologismi della prima, una specie di "Dizionario dei luoghi comuni' dove, con una scelta di tempo esemplare e facendo sfoggio di un funambolismo filologico efficacissimo, l'autore conduce un attacco a fondo alla 'linguetica', la moderna e onnipresente linguistica.
Raramente l'esorcizzazione delle malattie del linguaggio è stata fatta con tanta salute, con un dosaggio così felice di umori che si condensano in calzanti e imprevedibili neologismi. L'ulteriore deformazione di gorghi già grotteschi approda a una satira che finisce per ignorare il bersaglio che voleva colpire, per vivere della propria energia.
Nel testo ricorrono fantomatici personaggi : il conte. Madama Sorcia, Ulla, il giovane Max; quest'ultimo, ripreso anche nel titolo, allude probabilmente a una sorta di apprendistato, di decifrazione di un mondo in cui l'unica rivoluzione veramente possibile sembra solo quella delle parole.

Achille Perilli a Roma negli anni 60

A Roma negli anni 60

lunedì 7 dicembre 2009

Rassegna delle pubblicazioni



L'antologia de I novissimi (Rusconi e Paolazzi, Milano, 1961; Einaudi, Torino, 1965); con Nanni Balestrini il volume Gruppo '63. La nuova letteratura (Feltrinelli, Milano, 1964); con Elio Pagliarani, Pelle d'asino (Scheiwiller, Milano, 1964); con Jacqueline Risset, Poeti di «Tel Quel» (Einaudi, Torino, 1968). Fin dall'inizio (1956) è stato collaboratore de «Il Verri», la rivista di Luciano Anceschi, e sul finire degli anni Sessanta è stato direttore della rivista «Quindici». Ha fatto parte del comitato direttivo della rivista «Il cavallo di Troia». Il cuore zoppo (Magenta, Milano, 1955); Povera Juliet e altre poesie (Feltrinelli, Milano, 1965); Il tautofono (id., 1969); Ebbrezza di placamenti (Piero Manni, Lecce, 1993).Chi l'avrebbe detto (Einaudi, Torino, 1973) e Versi e nonversi (Feltrinelli, Milano, 1986). Immagini e maniere (Feltrinelli, Milano, 1965); Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, raccontata da Alfredo Giuliani con una scelta del poema (Einaudi, Torino, 1970); Antologia della poesia italiana dalle origini al Trecento (Feltrinelli, Milano, 1975); Le droghe di Marsiglia (Adelphi, Milano, 1977); Nostro Padre Ubu. Scenario in onore di Alfred Jarry (Cooperativa Scrittori, Roma, 1997); Autunno del Novecento. Cronache di letteratura (Feltrinelli, Milano, 1984). Ha pubblicato, inoltre, un volume in prosa, Il giovane Max (Adelphi, MIlano, 1982). Ha tradotto Sulla poesia e sui poeti di T. S. Eliot (Bompiani, Milano, 1960); Musica da camera di James Joyce, nel volume Poesie (Mondadori, Milano, 1961);Uomini e ombre di E. A. Robinson (Mondadori, 1965); poesie di Dylan Thomas, nel volume Poesie, curato da A. Marianni (Einaudi, Torino, 1970); Un certo Piuma di Henry Michaux (Bompiani, 1971); Volpone di Ben Jonson (Officina, Bologna, 1977).

domenica 6 dicembre 2009

Leo Paolazzi vs Antonio Porta

L'antologia de I novissimi
(Rusconi e Paolazzi, Milano, 1961; Einaudi, Torino, 1965)

biblioteca universitaria alessandrina la sapienza roma
 

sabato 5 dicembre 2009

Che anni quelli del Ferro di Cavallo

Pochi tenaci ricordi di Alfredo Giuliani Che anni erano quelli del Ferro di Cavallo? Felici, turbinosi. Niente calcoli, solo invenzioni, incontri e stupori allegri. 1960, 1961 e seguenti, fino al ’66. Il nostro piccolo e breve e intenso Montparnasse. Ci conoscevamo tutti. Agnese, la libraia prodigiosa stava intorno a un andirivieni animatissimo e ciondolante all’interno e sul marciapiede. Per me furono anni magici. Nel ’60 comincio a sperimentare i collages. Smontavo e rimontavo una quantità di materiale scelto, specie da giornali e settimanali (anche femminili), e componevo in sequenze i frammenti (accostamenti imprevedibili, slittamenti sintattici vertiginosi, titoli che sonavano stravaganti) e li fornivo all’amico Franco Nonnis che li metteva in una forma “pittorica”, un po’ colorita e snodata sulla superficie in modi attraenti e curiosi per l’osservatore. Invece il Nanni (Balestrini) i suoi collages in bianco e nero se li faceva da solo, e risultavano più ferocemente astratti. Così ci venne in mente che la libreria di Agnese avrebbe potuto ospitarli nel retrobottega (non so come chiamarlo), uno spazio non grande ma accogliente. Non so, non ricordo se qualche cronista parlò della nostra minuscola mostra. Il catalogo poverissimo era impreziosito dalla presentazione di Gillo Dorfles; e mi vanto di aver escogitato il titolo: Dai collages alle esperienze. Era un richiamo all’ultrarealismo della neoavanguardia. Qualcuno se ne sarà accorto? L’ultrarealismo frantumato e derisorio era nel contenuto della forma e nella forma del contenuto. Facevamo cose per il piacere di farle. Ma eravamo motivatissimi. Nella primavera del ’61 esce la prima edizione dell’antologia I Novissimi. Grandi feste al Ferro di Cavallo, sfarfallare di firme e scarabocchi (disegnetti, tracce di parole) dei tre novissimi presenti (con recupero successivo degli altri due in qualche occasionale loro discesa dal Nord). Raggranellare i sentiti autografi-sberleffi dei cinque su un certo numero di copie era l’intuizione scaltra e gaia della libraia prodigiosa: così si sarebbe incrementato il valore-modernariato dell’insolito libro; quelle copie, chissà, un giorno o l’altro avrebbero allettato amatori e collezionisti. Ai tempi del Ferro e dintorni – Piazza del Popolo col caffé Rosati e la galleria “Tartaruga”, il Doc a Via dell’Oca, il Babuino e Via Margutta, Piazza di Spagna e la galleria “La Salita” in Via San Sebastianello – circolava un’aria amicale che è difficile descrivere.

Mi feci, grazie anche al Ferro, parecchi nuovi amici. Non pochissimi divennero “stretti” e alcuni potrei chiamarli “intimi”. Ma tanti erano lì semplicemente, respiravano quell’aria, non invadevano e non erano figuranti, alacri spettatori collaboravano all’invenzione di quella frizzante atmosfera. La breve Montparnasse romana! Di quegli amici ne ricordo uno, Purini, giovane architetto (o doveva ancora laurearsi?), che proprio al Ferro mi disse di essere rimasto incantato da un’immagine colta in una mia poesia: «…la finestra così comune appesa al muro è spazio/ che mai coincide con i pensieri, conosco il posto, mi conoscono/ e siamo presenti...». Ecco, fui molto contento che quei versi avessero rintoccato nella mente di un lettore del giro amicale. Li ho citati perché sbattono un po’ di luce, oggi nel ricordo, sull’atmosfera che allora circolava. Una persiana verde esposta da Tano Festa in una mostra recente m’aveva suggerito la riflessione-immagine della finestra, ma l’avevo subito agganciata alla riflessione seguente trascinata dalla musica quasi inavvertita (osco, osto, osco), che definisce lo “spazio” evocato sopra, il nostro spazio estetico, vissuto quotidianamente. Spazio non recluso, identificato in un “posto” e nei pensieri oltre che lo avvolgono. Così andavano le cose al tempo delle sperimentazioni. Dopo il 1960-’61 continuai a occuparmi di tanto in tanto di collages, ne feci un paio con Gastone Novelli e altri con Toti Scialoja. I ritagli da giornali e riviste non erano la sola fonte di materiale. Molti frammenti li acciuffavo dalle conversazioni, era materiale parlato, preso dal vivo (le occasioni erano innumerevoli) e frettolosamente annotato. I montaggi preparatori (quelli che fornivo agli amici pittori) avevano un’impronta costante: la dialogicità assurda e stravolgente. Nel 1963 ricavai da quel materiale la prima delle “Poesie di teatro”, Povera Juliet, messa in scena a Palermo nello spettacolo allestito dal Gruppo 63. L’anno dopo uscì, edito da Feltrinelli, l’antologia che raccoglieva i testi e le cronache di quel primo convegno del Gruppo. E il libro approdò al Ferro di Cavallo per una grande festa, con la caccia alle firme. La copertina disegnata da Novelli includeva 44 o 45 nomi che sembravano scritti a matita e distribuiti in nebulose escogitate da ragazzini. La copia che ho conservato per me ne ha raccolte soltanto diciotto. Tu Agnese, quante ne hai (o ne avevi) di firme d’epoca nella tua copia? Basta, se continuassi darei nel divagare.

Video. il Gruppo 63 e i suoi epigoni

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il Gruppo 63 e i suoi epigoni

Premio Dams Festival 2006

Gran finale per il Premio Dams Festival 2006, che si conclude, com’è consuetudine, con «La Notte Dams », la serata di premiazione e spettacolo, presso l’ Aula Absidale di S. Lucia (via de’ Chiari, 23 – ore 21.30, ingresso libero).
Nel corso della serata saranno resi noti i vincitori del concorso e conferiti alcuni premi speciali. Il Dams di Bologna, infatti, assegna ogni anno due riconoscimenti a prestigiosi rappresentanti del mondo della cultura e dello spettacolo.
Per questa quinta edizione 2006 del Premio Dams, verrà assegnato il Premio “alla carriera” ad Alfredo Giuliani, critico letterario, poeta e saggista, il quale ha insegnato letteratura italiana moderna e contemporanea presso il Dams di Bologna dal 1971 al 1979.
Animatore del dibattito e della ricerca della letteratura sperimentale, il nome di Alfredo Giuliani è innanzitutto legato alla neoavanguardia, in quanto curatore dell’antologia “I Novissimi” uscita con una sua importante introduzione nel 1961 per Rusconi e Paolazzi. Quell’antologia segnava il lancio del gruppo di poeti (Nanni Balestrini, Elio Pagliarani, Antonio Porta, Edoardo Sanguineti e Giuliani stesso) destinati in modi diversi a divenire figure centrali nell’orizzonte letterario italiano. Sua anche la cura del volume Gruppo ’63, “La nuova letteratura”.
http://www.teknemedia.net/pagine-gialle/artisti/federico_maddalozzo/dettaglio-mostra/16659.html

Autunno del Novecento

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È nato a Mombaroccio (Pesaro) nel 1924, dove è morto nel 2007. Dal 1930 ha risieduto a Roma. Ordinario di letteratura italiana moderna e contemporanea all'Università di Chieti, dal 1976 è stato critico letterario del quotidiano «La Repubblica». Tra i protagonisti delle nuove avanguardie, ha curato l'antologia de I novissimi (Rusconi e Paolazzi, Milano, 1961; Einaudi, Torino, 1965); con Nanni Balestrini il volume Gruppo '63. La nuova letteratura (Feltrinelli, Milano, 1964); con Elio Pagliarani, Pelle d'asino (Scheiwiller, Milano, 1964); con Jacqueline Risset, Poeti di «Tel Quel» (Einaudi, Torino, 1968). Fin dall'inizio (1956) è stato collaboratore de «Il Verri», la rivista di Luciano Anceschi, e sul finire degli anni Sessanta è stato direttore della rivista «Quindici». Ha fatto parte del comitato direttivo della rivista «Il cavallo di Troia». Si è occupato anche di sociologia. Di poesia ha pubblicato: Il cuore zoppo (Magenta, Milano, 1955); Povera Juliet e altre poesie (Feltrinelli, Milano, 1965); Il tautofono (id., 1969); Ebbrezza di placamenti (Piero Manni, Lecce, 1993). I suoi testi poetici sono stati poi raccolti in volumi antologici Chi l'avrebbe detto (Einaudi, Torino, 1973) e Versi e nonversi (Feltrinelli, Milano, 1986). Come critico e saggista, ha pubblicato: Immagini e maniere (Feltrinelli, Milano, 1965); Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, raccontata da Alfredo Giuliani con una scelta del poema (Einaudi, Torino, 1970); Antologia della poesia italiana dalle origini al Trecento (Feltrinelli, Milano, 1975); Le droghe di Marsiglia (Adelphi, Milano, 1977); Nostro Padre Ubu. Scenario in onore di Alfred Jarry (Cooperativa Scrittori, Roma, 1997); Autunno del Novecento. Cronache di letteratura (Feltrinelli, Milano, 1984). Ha pubblicato, inoltre, un volume in prosa, Il giovane Max (Adelphi, MIlano, 1982). Ha tradotto Sulla poesia e sui poeti di T. S. Eliot (Bompiani, Milano, 1960); Musica da camera di James Joyce, nel volume Poesie (Mondadori, Milano, 1961);Uomini e ombre di E. A. Robinson (Mondadori, 1965); poesie di Dylan Thomas, nel volume Poesie, curato da A. Marianni (Einaudi, Torino, 1970); Un certo Piuma di Henry Michaux (Bompiani, 1971); Volpone di Ben Jonson (Officina, Bologna, 1977).

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Furia serena


Nel mese di agosto del 2007 è scomparso Alfredo Giuliani. Era nato nel 1924. È stato collaboratore e redattore del «Verri» e ha diretto la rivista «Quindici».Tra le sue opere di poesia: Il cuore zoppo (1955); Povera Juliet e altre poesie (1965); Il tautofono (1969); Chi l’avrebbe detto (1973); Ebbrezza di placamenti (1973); Poetrix Bazaar (2003). Ha pubblicato nel 1972 il romanzo Il giovane Max. I suoi interventi critici sono parzialmente raccolti in Immagini e maniere (1965 e 1996). Ha curato l’antologia I Novissimi, uscita in prima edizione nel 1961.Nel 2004 ha ottenuto un grande riconoscimento: la giuria del Premio Lorenzo Montano gli ha conferito il Premio speciale “Opere scelte – Regione Veneto”, riconoscendogli l’edizione di una raccolta di testi poetici, selezionati tra le sue pubblicazioni. È così nato il volume Furia serena, pubblicato da Anterem Edizioni. Da questo volume (con un saggio critico di Ugo Perolino) è tratta la dichiarazione di poetica che qui condividiamo con i lettori del nostro sito.

i Novissimi di Alfredo Giuliani

L'antologia de I novissimi (Rusconi e Paolazzi, Milano, 1961; Einaudi, Torino, 1965)

Che cosa ci si aspetta dagli scrittori? Che nelle loro finzioni introducano dosi più o meno cospicue di verità, lampi di conoscenza sui mondi reali o immaginabili. La lingua della scrittura letteraria non è mai innocente e “naturale”. E’ invece storicamente determinata e sempre in lotta con se stessa per non ripetere il già fatto. In una certa epoca si può, con qualche profitto, variare e arricchire; in altre epoche, quando si avverte l’esaurimento irrimediabile dei correnti modelli linguistici e formali, si è spinti, se vogliamo dallo spirito dei tempi, a ricercare il nuovo, a escogitare inediti modi di raccontare, di fare poesia o teatro. Ciò che chiamiamo la Tradizione è la conservazione delle novità che si sono succedute nel corso dei tempi: “Literature is news that STAYS news” (Ezra Pound in ABC of Reading).
Gli scrittori italiani che quasi loro malgrado hanno dovuto inventare il Gruppo 63 appartengono appunto a uno di tali periodi. La passione critica del nuovo agitava il karma occidentale di letterati, artisti e musicisti, dall’Austria al Brasile. Nei primi anni Cinquanta l’avanguardia era generalmente ritenuta una faccenda remota, ormai superata. Nella nostra temperie beatamente provinciale, qualcuno si accorse che la Tradizione moderna era segnata dalle avanguardie, e come tutte le tradizioni anche questa andava rivisitata. Le cose che passano, anche restano. Fenomeno dalle molte facce, la neoavanguardia fu anzitutto una rivisitazione critica della modernità, un ripercorrerla senza pregiudizio e con molta passione di capire. Capire, poniamo, perché si provassero emozioni sottilmente o violentemente diverse nell’ascoltare i concerti per violino e orchestra di Mendelsohn e di Bartòk, nel guardare un Caravaggio e un collage di Kurt Schwitters, nel leggere Leopardi e Samuel Beckett. Tutto ciò accadeva, guarda caso, alle soglie della postmodernità. In qualche modo, alla luce critica di quella rivisitazione, la modernità si mostrava già declinante, e le esperienze dell’arte e della letteratura d’avanguardia, anziché superate, sembravano le più vitali e promettenti. Non consentivano nostalgie o facili epigonismi, incitavano i poeti, gli “espressori” li aveva chiamati Carlo Emilio Gadda in Viaggi la morte, a non arrendersi all’evidenza del declino.
Bisogna intendersi su questo punto. L’avanguardia s’infila nelle fessure e fratture della storia rendendole bellamente o sgradevolmente visibili o folgoranti. Non ha alcun rilievo che l’autore partecipi a un movimento o sia un perfetto individualista più o meno socievole. Essa si definisce dalla tendenza, dal linguaggio, dalla visione caratterizzanti certe opere che sono state o sono contro la comoda e alienante gestione della Continuità. L’avanguardia è nomade e polimorfa. La ritrovi in una teoria estetica, la Lettera del veggente di Arthur Rimbaud e i Manifesti futuristi, o in un romanzo epico alla rovescia come Ulisse di James Joyce. La musa esigente dell’avanguardia è l’assillo bodleriano di trovare il nuovo, è l’ambizione di Rimbaud alle invenzioni d’ignoto. Ed è anche il gaio spirito d’irrisione del patafisico Jarry, è la leggerezza maliziosa e indolore del primo Palazzeschi. Il nuovo a cui aspira l’avanguardia non è la novità di stagione. Contrariamente a quanto credono molti, essa mira all’assolutezza del gesto e del risultato: non è avanguardia di nessuno, ma soltanto di se stessa.
“Gruppo 63” è una sigla di comodo di cui spiegheremo un po’ più avanti l’origine. Di fatto dietro a questa sigla c’era un movimento spontaneo suscitato da una vivace insofferenza per lo stato allora dominante delle cose letterarie (1): opere magari anche decorose ma per lo più prive di vitalità e di rilievo stilistico innescavano prolungati dibattiti critici. Un blando romanzo tradizionale come Metello di Pratolini, uscito nel 1955, fornì agli addetti ai lavori l’occasione di eccitate analisi e discussioni che divamparono per mesi e mesi. Furono l’ultima fiammata del neorealismo in letteratura, fioca eco populista della grande stagione cinematografica dei Rossellini e dei De Sica.
Mentre l’Italia si andava impetuosamente trasformando da paese agricolo a paese industriale, i suoi scrittori facevano una gran fatica a entrare nella modernità. Bisogna pur dire che da parte loro proveniva qualche risposta alla nuova situazione. Vittorini (soprattutto con la rivista “Menabò”), Ottieri e Volponi, per esempio, si ponevano il problema del rapporto tra industria e letteratura, ma le loro opere narrative spesso riproponevano personaggi contadini in vesti operaie, privi di una propria connotazione linguistica. Altri tentavano di interpretare i drammi esistenziali dei nuovi ceti emergenti: è il caso di Cassola e soprattutto di Bassani (Gli occhiali d’oro, Il giardino dei Finzi Contini), che infatti ottiene un notevole successo di pubblico negli anni del “miracolo economico”. Ma anche questa fase di trasformazione della società italiana è meglio rappresentata dal cinema (Antonioni e Fellini) che non dalla narrativa.
Un altro esempio clamoroso della abituale e ahimé rituale distorsione del giudizio critico, vigente in quegli anni, è l’accoglienza quasi concordemente euforica ricevuta dal Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, un buon romanzo tradizionale, letteratissimo, che tra l’altro riecheggia tale e quale (e la critica non mostrò di accorgersene) la morale cinica del principe Consalvo di Francalanza nei Viceré di De Roberto. Si ricordi lo scioglimento del romanzo, il dialogo tra il giovane principe, eletto deputato nel 1882, con la vecchia zia Donna Ferdinanda, inguaribile borbonica, costretta a tacere dalla foga oratoria del nipote. Il suo abbondante eloquio si può così riassumere: Vostra Eccellenza si rassicuri, tutto è cambiato dai tempi feudali, ma tutto resterà nella sostanza come prima. “Certo, la monarchia assoluta tutelava meglio gli interessi della nostra casta; ma una forza superiore, una corrente irresistibile l’ha travolta… Dobbiamo farci mettere il piede sul collo anche noi? Il nostro dovere, invece di sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene!…”
Un punto dolente della vita letteraria di quegli anni era proprio lo striminzito orizzonte critico dominante che non solo trascurava opere capitali della Tradizione recente, ma escludeva ogni esigenza di rinnovamento e i problemi che esso comportava: bisognava ripensare la natura dei linguaggi che attraversano la scrittura, quindi le strutture formali che qualificano il testo, i rapporti con una realtà complessa e lacerata, il ruolo che i mezzi di comunicazione assumevano in quella che di lì a poco si sarebbe chiamata “società dello spettacolo”, la posizione di sfida calcolata dello scrittore a convenzioni di stile e di comportamento ormai usurate.
Dalla fine degli anni 50 il concetto hegelo-marxiano di alienazione, rinvedito da T.W.Adorno, si era diffuso nel mondo intellettuale quasi come un’ossessione. Tanto che a scopo apotropaico Umberto Eco l’aveva ridotto a una canzoncina (sul tema allora in voga di Arrivederci) che cantavamo allegramente nei momenti di distensione del convegno palermitano del 1963:

Alienaziooone
è rinunciare al problema
ed arrendersi
solo al sistema
non possedersi più
ma solo attendere …

L’industria ti foggia il destino
a poco a poco
tu credi di essere libero
ma è solo un gioco…

Alienazione
è rinunciare a se stesso
è un processo
di perdizione…

Forse rivoluzione
può liberaaarti…

Ma se la tecnica impera
la libertà è una chimera.
Non ti rimane che dire:
alieenaaazione.

Allora, pur non sentendoci personalmente troppo alienati, sentivamo però davvero incombere l’alienazione nelle forme della vita quotidiana, nonché sull’uso letterario della lingua, la quale d’altronde rispecchia tutte le alienazioni; ne derivava il proposito di usarla quanto possibile contro se stessa. Si potrebbe affermare che in questo disegno agiva una rilevata orma teorica segnata da Luciano Anceschi nel 1936 in Autonomia ed eteronomia dell’arte.
Uomo metodicamente inquieto, di sottilissima intelligenza estetica e speculativa, Anceschi impersonava, sono le sue stesse parole, “la difficilissima gioia della ricerca”. Quella sua prima opera era una fine ricognizione delle poetiche moderne, dal preromanticismo al simbolismo; l’antitesti antinomia/eteronomia vi appariva come una polarità immanente alla vita dell’arte e della letteratura e la principale ragione della loro instabilità. Le arti e la letteratura (la poesia soprattutto) tentano di unificare una quantità di elementi esterni, ai quali possono anche soccombere; e d’altra parte cercano di imporre o sostituire alla realtà dell’esperienza i propri impulsi formali, impulsi che possono irrigidirsi e perdere la vitalità concettuale che li giustifica. Si tratta di vedere da vicino la dialettica storica, sommamente complessa, la tensione ineliminabile tra i due poli. All’interno di questo infinito confronto, Anceschi individua la ricca fenomenologia delle poetiche artistiche e letterarie, la loro teoreticità sempre nuova dentro l’orizzonte prammatico che le caratterizza. Fin dai suoi esordi Anceschi è dunque attratto dal pensiero della complessità. E’ l’uomo della tradizione e insieme è l’uomo dei mutamenti e delle novità, sempre intento a identificare le tracce originarie delle “situazioni”: vedi i suoi studi sul barocco, l’ermetismo, l’astrattismo, Eliot e Pound.
Si spiega quindi come vent’anni dopo Autonomia ed eteronomia dell’arte, cogliendo tempestivamente i segni del mutamento in corso, abbia fondato la rivista “il Verri”. Osservatorio critico e laboratorio di non pochi autori che ben presto sarebbero diventati noti, la rivista coltivava una stimolante varietà di interessi, e proponeva una maniera concettuale molto avvincente di collegare i fenomeni e i metodi per leggerli. Centrale di idee, esplorazioni e “umori”, “il Verri” prestò attenzione particolare ad autori e movimenti culturali degli altri paesi, e favorì in Italia la rinascita dell’avanguardia, ne sostenne lo slancio e l’allevò nelle sue pagine. Nel 1961, uscita nelle edizioni della rivista l’antologia I novissimi, di cui non aveva esitato a accettare l’impostazione dirompente, Anceschi affermò quasi sollevato: “Per quel che riguarda la poesia, si può dire con qualche fondamento che il dopoguerra finisce solo ora”. Gli sembrò una svolta, che risarciva una lunga insoddisfazione. L’introduzione di Giuliani si concludeva con una scommessa:

Nessuna profezia è contenuta nel sottotitolo del frontespizio: poesie per gli anni ’60. Comincia appena ora un altro periodo che vorremmo augurarci meno triste e faticoso di quello che abbiamo vissuto negli ultimi dieci anni. Ma assumiamo pure che tristezza e fatica continuino: è difficile soffocare con le intimidazioni critiche il bisogno di parlare in versi. Io credo, senza escludere che altri abbiano fatto o stiano facendo del loro meglio, credo che le poesie qui raccolte aprano più di uno spiraglio, e che sia quasi impossibile ignorare le esperenze e la carica vitale che noi, ciascuno a suo modo, abbiamo tentato di mettere nel linguaggio. C’è qui, voglio dire, qualche risultato tangibile e un’offerta a pensare e a dire. Ogni volta che in Italia qualcuno vuole essere contemporaneo, deve scontrarsi con l’immaturità sociale, col provincialismo politico, con le improvvisazioni e inquietudini che si pretendono soluzioni, con la perpetua commistione di anarchismo e legittimismo. Non si può supporre che tutto questo non sia rappresentato dal nostro linguaggio; ma si deve chiedere qualcosa di più. In tale senso, per avere chiesto alla poesia un possibile accrescimento di vitalità, gli autori qui presenti possono presumere di fornire una indicazione, una proposta valevole per tutti. (2)

Oltre a furibonde polemiche, la proposta suscitò non poche adesioni, anche in ambiti diversi dalla letteratura come la pittura e la musica. Intorno al “Verri” e sotto la propulsione dei Novissimi crebbe un movimento di stimoli e consonanze che sembrava aleggiassero già nell’aria. Fu un compositore, Luigi Nono, a suggerirci la formula impiegata dagli scrittori tedeschi per gli incontri annuali del Gruppo 47. Nella Germania del dopoguerra i giovani scrittori si erano trovati davanti al compito di ricostruire una tradizione letteraria spezzata dal nazismo e dalla guerra, e il Gruppo 47 era stato lo strumento di lavoro messo in piedi a tale scopo. Strumento semplice, agile e facile da allestire periodicamente: un seminario annuale in cui gli scrittori confrontavano i loro lavori in corso, leggendoli e criticandoli reciprocamente, non per riconoscersi su orientamenti e poetiche comuni, ma per rifondare in tempi brevi la loro letteratura. Da Günter Grass a Ingeborg Bachmann, da Enzensberger a Peter Handke, per molti anni gli scrittori tedeschi si misurarono in questo laboratorio d'emergenza.
Il modello tedesco ci sembrò molto interessante perchè rispondeva a un nostro bisogno costante di confrontarci e di discutere. Certo i connotati storici della nostra situazione erano diversi da quelli in cui era nato il Gruppo 47; eppure, nella sostanza, le nostre intenzioni erano abbastanza consimili. I giovani scrittori tedeschi del dopoguerra erano partiti da una situazione di rovine e di deserto culturale, non sentivano dietro di sé una tradizione recente da superare, una generazione letteraria con cui fare i conti. L’intera cultura tedesca era stata annientata dal nazismo o dispersa nell’esilio. Da noi, invece, il fascismo aveva più blandito e addomesticato che non perseguitato gli scrittori; i quali da parte loro si erano adattati a fare tutt’al più un pochettino di fronda. Transitati senza grandi scosse dalla guerra al dopoguerra, dalla dittatura alla democrazia, nel mezzo del boom economico esploso alla fine degli anni Cinquanta, anche noi sentivamo di dover ricominciare daccapo; solo che, in luogo del deserto, avevamo di fronte un sistema culturale antiquato, asfittico e potente che occupava pressoché tutti gli spazi della comunicazione, ostacolando ogni tentativo di rinnovamento. Gli stessi studiosi e i letterati marxisti ormai dominanti nel sistema erano, tranne pochi casi (per esempio Galvano Della Volpe), tutti abbondantemente crociani. Non è un caso che l’opinione allora prevalente riguardo alle avanguardie fosse, né più né meno, che le avanguardie erano sepolte e superate. E d’altra parte il tema dell’impegno dello scrittore ingombrava ancora i percorsi del discorso letterario. In proposito era diffusa una carenza teorica di cui si era reso conto anche Elio Vittorini, in una lettera del 20 dicembre 1963, resa nota solo di recente, a Italo Calvino:

In questi ultimi anni (tre ultimi, quattro ultimi) noi ci siamo persuasi, a ogni buon conto, che anche l’impegno storico-sociale, lo storicismo, l’ideologismo eccetera, eccetera, cui ci eravamo applicati da poco prima della guerra non servono minimamente a rompere e modificare la condizione minorata della letteratura e anzi radicalizzano il carattere culturalmente subalterno di essa se li assumiamo (da fuori, e così come sono fuori) entro le nostre invariate strutture ingenue (…). Certo si è potuto giungere, in questa assunzione ingenua dello storico-sociale a punti di poesia culturalmente avanzati e significativi, ma l’insistervi è a poco a poco a poco diventato un disastro, ha prodotto creature ripugnanti (…). Il guaio non deriva dall’interesse storico-sociale in sé, ma dal modo fasullo in cui è stato assunto, né può esservi salvezza nel tornare a assumerlo, se non salviamo le strutture stesse del discorso letterario dall’ingenuità che le depotenzia e non le rendiamo capaci di elaborare, a livello con le scienze e le tecniche oggi più avanzate, un senso anche storico-sociale che risulti strutturalmente suo proprio. (3)

I termini di questo problema, che tanto arrovellava Vittorini, noi li avevamo già da tempo ribaltati: anzitutto era evidente che non esisteva nessuna contraddizione di principio tra impegno e avanguardia, e che solo riconoscendo il primato delle strutture linguistiche era possibile alla letteratura confrontarsi con la realtà. Nell’introduzione ai Novissimi (1961) si poteva leggere:

Nessuno di noi vuole dimostrare o limitarsi a denunciare alcunchè: ognuno ha coltivato senza pietismi la propria capacità di contatto con le forme linguistiche della realtà. Suppongo sia chiara in noi una vocazione a conoscere, leggibile in ciò che scriviamo e non presunta in ciò che proclamiamo di voler scrivere. (…) Tutti noialtri ci siamo fatti un problema di verità, di rinnovamento strutturale, non di realismo coatto. (…) Se conveniamo che, in quanto “contemporanea”, la poesia agisce direttamente sulla vitalità del lettore, allora ciò che conta in primo luogo è la sua vitalità linguistica. (…) E nei periodi di crisi il modo di fare coincide quasi interamente col significato. (…) Per noi è pacifico che una posizione errata verso i problemi del linguaggio non si spiega facilmente con la desolazione della società. Storicamente, esiste sempre una posizione giusta, anche se questa, proprio perché “giusta”, possa forse condurre a un destino “sperimentale”. (4)

E Angelo Guglielmi:

Ogni ponte tra parola e cosa è crollato. La lingua in quanto rappresentazione della realtà è ormai un congegno matto. Tuttavia il riconoscimento della realtà rimane lo scopo dello scrivere. Ma come potrà effettuarsi? La lingua che ha fin qui istituito rapporti di rappresentazione con la realtà, ponendosi nei confronti di questa in posizione frontale, di specchio in cui essa direttamente si rifletteva, dovrà cambiare punto di vista. E cioè o trasferirsi nel cuore della realtà, trasformandosi da specchio riflettente in accurato registratore dei processi, anche i più irrazionali, del formarsi del reale; oppure, continuando a rimanere all’esterno della realtà, porre tra se stessa e questa un filtro attraverso il quale le cose, allargandosi in immagini surreali o allungandosi in forme allucinate, tornino a svelarsi. Questa è l’operazione essenziale del nuovo sperimentalismo. (5)

Renato Barilli, polemizzando nel 1960 con Calvino a proposito degli intellettuali italiani:

Quando poi, in questo dopoguerra, essi hanno avvertito la necessità di uscire dalla lunga clausura e di partecipare, di assumere un pubblico impegno, hanno preteso riportarsi nel vivo della corrente, di colpo, senza passare attraverso pazienti mediazioni. Si sono allora precipitati a qualificarsi nel modo che appariva essere il più radicale e perentorio: si sono qualificati circa la ragion pratica, la ragione etico-politica, dimenticando del tutto gli altri aspetti dell’orizzonte culturale: aspetti psicologici, gnoseologici, concezioni del vedere, del percepire, del sentire, che pure per un artista costituiscono la via principale per integrare il suo primo nucleo poetico e prendere a partecipare a una cultura. (6)

Fausto Curi:

In quanto avverte se stessa come parte integrante di una metodologia, è naturale che oggi l’arte d’avanguardia abbia di sé non una conoscenza ontologica, ma una conoscenza tecnica, strumentale, procedurale, e che il suo impegno massimo sia da un lato un impegno di relazionalità, dall’altro un impegno di funzionalità, di efficienza tecnica e di efficacia operativa. Ma converrà sttolineare anche l’importanza della coscienza negativa (e dunque dell’impegno negativo) che essa ha acquisito di sé. Aver scoperto che l’arte non può salvare l’uomo né mutare il mondo né identificarsi con la vita o, peggio, essere sostituita a essa; aver deciso che l’arte non è un modo di consolazione o di evasione, che, anzi, non sussiste un diritto di consolazione o di evasione per chi ha scelto quella forma di presenza nel mondo che è l’arte; aver negato che esista per essa un orizzonte privilegiato di verità, che essa, ancora sia la Verità e l’Innocenza; essersi liberato sia dell’orgoglio che della vergogna dell’arte: tutto ciò è, se non altro, indiscutibile merito dell’artista d’oggi. (7)

Questi brevi flash testimoniano una situazione di ricerca, idee e fervori che portò quasi naturalmente alla nascita del “Gruppo 63”.(8) Se la nostra sigla riprendeva quella delle riunioni tedesche, le nostre intenzioni erano in buona parte ludiche: ci piaceva portare allo scoperto una sfida che fino a quel momento era soltanto implicita nei nostri primi libri, negli articoli che apparivano nel “Verri” e nelle nostre perpetue discussioni, che ai quei tempi avvenivano anche per via epistolare. Ci avrebbe fatto molto comodo un luogo dove ritrovarci di tanto in tanto in seduta plenaria, per litigare proficuamente tutti insieme.
La prima occasione ci fu offerta nel 1963 da Francesco Agnello, che guidava la “Settimana internazionale Nuova Musica” di Palermo, prestigiosa manifestazione dei giovani compositori d’avanguardia. Dal 2 al 9 ottobre il programma comprendeva i nomi di Ligeti, Evangelisti, Clementi, Pousseur, Donatoni, Cardew, Nono, Stockausen, Berio, Bussotti, Kagel, Chiari, Schnebel, Feldman… Invitati a partecipare in qualità di scrittori che seguivano un itinerario di rinnovamento parallelo a quello dei musicisti, oltre alle nostre reciproche letture di lavori in corso (a porte chiuse), organizzammo un mulinello di undici atti unici, messi in scena alla Sala Scarlatti del Conservatorio, e partecipammo a un movimentato ciclo di conferenze a più voci su teatro, teatro musicale, musica, pittura, poesia, narrativa. L’insieme suscitò un inaspettato frastuono che rimbalzò sulle pagine di quotidiani e settimanali e i cui echi il paziente lettore potrà orecchiare nel resoconto di Pietro Buttitta alla fine di questo libro. Ciò che a noi interessava in quel momento non era certo il “frastuono”, ma l’aver messo in campo una “disposizione morale”. Il clima del nostro incontro è stato così vivacemente descritto da Umberto Eco:

Dato che c’erano fratture, ogni lettura fatta non riscuoteva il consenso generale. Così ciascuno esponeva il proprio punto di vista, e nel modo più impietoso. Non ci si dichiarava perplessi: ci si diceva contro. E si diceva il perché. Quali fossero i perché non conta. Conta che in questa società letteraria l’unità si stava realizzando a poco a poco attraverso due implicite assunzioni di metodo: 1) ogni autore sentiva necessario controllare la sua ricerca sottoponendola alle reazioni altrui; 2) la collaborazione si manifestava come assenza di pietà e di indulgenza. Correvano definizioni da levare la pelle agli animi meno sensibili. Espresso pubblicamente nell’ambito della società letteraria apollinea, ciascuno di questi giudizi avrebbe segnato la fine di una bella amicizia. Si sarebbero aperte le cateratte polemiche sui fogli noleggiati ad hoc; si sarebbero denunciati i vergognosi moventi del dissenso critico, le spose prese a prestito, le cattedre nascoste nella manica, il premio letterario occultato sotto il cappello e passato sottobanco al figlio naturale.
A caratterizzare il comportamento degli utenti di questo ponte di San Luis Rey palermitano, stava invece l’accettazione, la richiesta del gioco.
Dunque il gruppo esisteva, ed esisteva la poetica comune: più che un progetto di operazione estetica era una disposizione morale, una constatazione storica. Si constatavano i pericoli di un lavoro letterario soltanto individuale, la necessità di una ricerca collettiva, anche là e proprio là dove le prospettive e le soluzioni divergevano. (9)

E fu proprio il dibattito col quale si aprì la settimana che, mettendo a confronto le diverse e a volte contrastanti posizioni, ci rassicurò sulla vitalità dei nostri intenti. Ecco alcuni tratti delle prospettive a cui eravamo arrivati. Per Alfredo Giuliani:

Il tipo di letteratura che chiamiamo tradizionale accetta l'esistenza della lingua colta corrente nelle sue strutture semantiche e sintattiche e ne accetta l'esistenza come una garanzia. Al contrario, il tipo di letteratura che chiamiamo d'avanguardia non accetta l'esistenza della lingua colta corrente come una garanzia e non considera le sue strutture come razionali, ma semplicemente come storiche. (...) Per dirlo in una maniera molto sintetica, penso che la letteratura d'avanguardia sia caratterizzata dall'esibire la propria struttura arbitraria e maniaca quale forma eteronoma rispetto alla percezione del mondo: mostrando immediatamente i tralicci e sapendo di essere letteratura, essa rimanda all'apparenza reale in una maniera diversa dalla letteratura comune, che è sempre un tipo di letteratura mimetico, o esplicativo, o semplicemente razionale nel senso illuministico o naturalistico della parola. In un certo senso potremmo definire la nozione in modo allegorico, dicendo che si ha letteratura d'avanguardia là dove la delucidazione del linguaggio si presenta come enigma o interrogazione oltre la mistificazione dei falsi enigmi, cioè senza prendere per buona, fino in fondo, nè l'apparenza reale nè la letteratura in quanto tale. Di qui il suo grande margine di rischio, le sue buffonate e anche la sua 'sublimità'.

Per Angelo Guglielmi:

La linea 'viscerale' della cultura contemporanea in cui è da riconoscere l'unica avanguardia oggi possibile è a-ideologica, disimpegnata, astorica, in una parola 'atemporale'; non contiene messaggi, nè produce significati di carattere generale. Non conosce regole (o leggi) nè come condizione di partenza, nè come risultato di arrivo. Suo scopo è quello di recuperare il reale nella sua intattezza: ciò che può fare sottraendolo alla Storia, scoprendolo nella sua accezione più neutra, nella sua versione più imparziale, al grado zero. Gadda, Robbe-Grillet, Pollock colgono le cose al di qua (prima) di ogni possibile interpretazione, di ogni loro (delle cose) compromesso con una qualsiasi situazione di valore, non in quanto indicazioni di realtà, ma quali esemplari di realtà, campioni di materia.

A questa visione si opponeva Sanguineti:

Io non credo che ciò che caratterizza l'avanguardia sia questa assunzione privilegiata del linguaggio contro l'ideologia, ma la ferma consapevolezza che non si dà operazione ideologica che non sia, contemporaneamente e immediatamente verificabile nel linguaggio. Ed è anche troppo evidente che per il linguaggio non si ha da intendere, con una sorta di riduzione materica, la mera superficie stilistica dell'opera, ma la sua struttura espressiva, in generale. (...) L'avanguardia esprime quindi, in generale, la coscienza del rapporto fra l'intellettuale e la società borghese, portata al suo grado ultimo, ed esprime contemporaneamente, in generale, la coscienza del rapporto tra ideologia e linguaggio, e cioè la consapevolezza del fatto che ciò che è proprio dell'operazione letteraria in quanto tale è l'espressione di un'ideologia nella forma del linguaggio. E' insomma chiaro che, nelle strutture fondamentali dell'ideologia borghese, si è costituita una normalità, anche a livello linguistico, che l'avanguardia si rifiuta di accettare, a prezzo di apparire di fronte alla normalità borghese costituita, immediatamente come pura patologia. (...) Per essere autenticamente critica, e autenticamente realistica, l'arte deve energicamente uscire dai limiti della normalità borghese, cioè dalle sue norme ideologiche e linguistiche.

Mentre per Renato Barilli:

C'è un altro modo di intendere la nozione di ideologia. Una 'visione del mondo' non ha da rispondere solo sul piano sociale, cioè proporre una teoria – poniamo – sulle classi sociali, proporre un sistema economico, un sistema politico. Una visione del mondo coerente deve rispondere su tanti altri punti: ci sono tutti i punti che, sempre kantianamente, si potrebbero dire della ragion pura; ma non spaventi questo termine, non sembri troppo astratto; si sa che per Kant la ragion pura riguarda la percezione, il conoscere, lo spazio, il tempo. Ora questi sono problemi altrettanto fondamentali per una visione del mondo quanto i problemi del gruppo economico-politico. E invece che cosa è avvenuto, specialmente in questo dopoguerra? E' avvenuto che i problemi della ragion pura, cioè i problemi relativi al conoscere, i problemi di ordine psicologico, gnoseologico, epistemologico, antropologico in genere sono stati sistematicamente depressi a favore di problemi etico-politici, mentre si dà il caso che le arti visive e la letteratura siano molto più prossime ai problemi appunto di ordine gnoseologico, cioè in genere conoscitivo, percettivo, antropologico, che non ai problemi di ordine politico-economico.(10)

Dopo la settimana di Palermo, il fantasma del Gruppo poteva tranquillamente fingere di esistere. Avevamo scoperto che per ottenere uno spazio temporaneo, una volta l’anno, anziché sognare riunioni private, collettivamente impraticabili, era molto più facile smuovere sindaci, assessorati alla cultura, aziende di turismo. E finchè ci piacque così fu.
Nel 1964 andammo a Reggio Emilia e qui gli scontri furono più pungenti: i proseliti crescevano, scendevano in motocicletta da Udine, risalivano la penisola in comitive. Letterati, dalle province e dalle città, chiedevano come ci si iscriveva al Gruppo 63. Un simpatico inviato del “Messaggero”, tradizionalista di ferro, s’era annotato alcuni spezzoni della discussione e ne riportò una filza senza commento: “turpiloquio cosmico” (pare la voce inconfondibile del Manganelli), “letteratura farmaceutico-viscerale”, “prosa caratterizzata dal complesso d’inferiorità”, “racconto che si racconta e non è raccontato”. Questi erano i rischi di un laboratorio praticato in pubblico.
L’anno dopo, tornati a Palermo, discutemmo del romanzo con rinnovati e proficui contrasti. Eco andava dicendo che ormai il disaccordo interno era il nostro “sport statutario”. Giancarlo Marmori, garbatissimo e lievemente impressionato, notava su “L’Espresso” che l’incompatibilità o complementarità delle posizioni teoriche (chi vuole l’avventura, chi il romanzo ideologico, chi vuole “normalizzare” l’avanguardia e chi la vuole spingere al “grado zero”) animava una discussione interminabile e sottile che proseguiva “ovunque era possibile farsi sentire, a tavola, nei bar, sui marciapiedi. Era cominciata anzi a bordo degli aerei che dal Nord volavano verso Palermo, o tentavano di decollare, inchiodati a terra negli aeroporti, dirottati per schivare l’uragano, mantenuti in volo perché le piste d’atterraggio erano fradice”.
Ecco, questa era la parte verace e intellettualmente genuina del Gruppo 63. Senza volerlo, quasi per una intuizione di scrittore, Marmori aveva azzeccato una metafora: a quei tempi noi si volava sopra le circostanze, a loro dispetto, utilizzandole. Ci appassionavano i problemi della letteratura in quanto della letteratura e in quanto, sempre, qualche cosa d’altro (storia, biografia, ricerca, consumo del linguaggio).
Nel 1966 andammo a La Spezia e fu un incontro assai piacevole con bellissime feste e parecchi nomi nuovi. Però cominciavamo a essere stufi della lettura dei testi. L’anno dopo a Fano, ultima riunione ufficiale del Gruppo, lasciammo tutto lo spazio agli esordienti.
Il periodo degli esperimenti era concluso. Il mondo stava cambiando, si avvicinava il Sessantotto. Sapevamo o sentivamo che bisognava prepararsi uno “spazio” diverso, un “luogo” da gestire con le nostre forze: nacque il mensile “Quindici”, che raggiunse rapidamente una grande diffusione, arrivando a tirare più di 30.000 copie. Ma la sempre crescente politicizzazione della rivista, travolta dagli avvenimenti europei e nostrani, esasperò contraddizioni e spaccature tra i collaboratori; ciò determinerà la sua chiusura nell'autunno del '69, data che può essere considerata quella della fine della neoavanguardia come fenomeno (si fa per dire) organizzato.
Nonostante tutte le scemenze rovesciate addosso al Gruppo 63 dai suoi deprimenti avversari, la neoavanguardia italiana non s’era mai posta come una alternativa di potere; s’era presentata invece come un’alternativa (discutibile fin che si vuole) di idee, di poetiche, di valutazioni. Non ha mai programmato di diventare una cittadella, né di dare la scalata a nulla. Ha goduto di qualche simpatia e di alcune cordiali ospitalità. Fino alla libera e breve impresa di “Quindici”, la sua occupazione di certi spazi fu doverosamente provvisoria. Così la neoavanguardia italiana non ha avuto alcun capo carismatico. Qualcuno all’esterno ha creduto di identificarlo in Sanguineti, quanto meno come “capofila”. In realtà Sanguineti non capofilava un bel niente, anche se aveva il suo bravo prestigio, né Balestrini o Eco o Pagliarani, o altri, capofilavano. C’era una specie di collettivo informale tenuto insieme dalla reciproca convinzione che a dispetto dei dissensi si andava tutti contro la Letteratura Costituita. Ci si divertiva, mentre i nostri avversari, quando ci capitava di incontrarli ci guardavano imbronciati e addirittura cupi. Il Gruppo metteva la serietà sotto il controllo del gioco: la carica di autoironia, la volontà di sperpero gli hanno sanamentre impedito di programmare la propria sopravvivenza. Tutto ciò spiega perché i “superstiti” non si sentano affatto orfani: non hanno perso il Capo, non hanno perso la Mamma, non hanno tradito nessuna Ideologia. Anzi, contrariamente a un ripetuto luogo comune, a loro si devono le opere poetiche narrative e saggistiche più caratterizzanti gli anni 60. E ovviamente, dato che erano tutti abbastanza giovani, anche nei decenni successivi hanno continuato a scrivere mica male, e magari anche meglio.



Molti dei testi inclusi in questa antologia sono stati letti nel corso degli incontri annuali del Gruppo. Si tratta di poesie, brani narrativi o lavori teatrali (a volte in forma di frammento). Una buona parte era già contenuta nel volume Gruppo 63 pubblicato nel 1964. Alcuni testi sono di autori che, pur non avendo partecipato agli incontri, si riconoscevano nell’iniziativa del Gruppo e ne condividevano le motivazioni. Non abbiamo scelto alcun testo successivo al 1969, per non oltrepassare il periodo che ci sembra caratterizzato fortemente dallo sperimentalismo. Nel decennio che qui viene documentato gli esperimenti si succedevano tumultuosamente in una ebbrezza liberatoria dai canoni ormai usurati della Letteratura Corrente. Ebbrezza lucida, stimolata dal desiderio di trovare nuove strade alla realtà della scrittura. Che importa se non tutti i tentativi dettero frutto? Anch’essi contribuiscono a disegnare i lineamenti di quel periodo estroso e generoso.
Ci sembra impossibile e probabilmente anche inutile individuare negli scrittori qui presenti una poetica comune; possiamo però notare alcune costanti nella formazione del loro gusto: anzitutto la rivisitazione delle avanguardie passate (cosiddette “storiche”), magari sulle tracce di esperienze contemporanee, per esempio il Teatro dell’assurdo di Ionesco e Beckett, il Nouveau roman di Robbe-Grillet & Co., il Cut-up di Bourroughs… Osserviamo poi che sul piano della contemporaneità ha agito su molti il confronto con le arti e la musica, il cui sviluppo novecentesco sembrava lasciare indietro i metodi compositivi dei poeti e dei romanzieri, e li stimolava al confronto.
Nell’ambito di questa situazione di ricerca e discussione, che aveva alle sue origini il lavoro del “Verri” e la sortita dei Novissimi, si formarono spontanee aggregazioni che dettero vita a riviste più o meno durature, ma molto caratterizzate: “Marcatrè” a Genova, diretta da Eugenio Battisti; “Grammatica” a Roma, su iniziativa dei pittori Achille Perilli e Gastone Novelli insieme a Alfredo Giuliani e Giorgio Manganelli; “Malebolge” a Reggio Emilia. Ci furono i giovani narratori della “Scuola di Palermo” e il fiorentino “Gruppo 70” di Pignotti e Miccini che si occupava attivamente di poesia visiva.
Il primo editore che sostenne gli scrittori del Gruppo fu Giangiacomo Feltrinelli, che, oltre a pubblicare “Il Verri” dal 1962 al 1972, diede larga ospitalità ai loro libri in diverse collane curate da V. Riva e N. Balestrini (Le Comete, Materiali, Poesia). Vanni Scheiwiller, fra il 1961 e il 1966, pubblicò una collana intitolata Poesia Novissima. L’editore Einaudi, dopo la riedizione del 1965 dell’antologia I Novissimi, inaugura con La figlia prodiga di A. Ceresa la serie italiana della Ricerca letteraria, a cura di G. Davico Bonino, G. Manganelli, E. Sanguineti, prevalentemente dedicata a autori del Gruppo.
Frequenti i rapporti della neoavanguardia letteraria italiana con analoghi movimenti stranieri di quegli anni, come il gruppo brasiliano “Noigandres”, laboratorio di poesia concreta (il loro ambasciatore era l’infaticabile Haroldo de Campos, appassionato di Dante e Leopardi). Gli scrittori francesi raccolti intorno alla rivista “Tel Quel” avvertivano sintonie con ciò che accadeva in Italia e pubblicavano testi di autori del Gruppo; due di loro, Pleynet e Thibaudeau, parteciparono al convegno di Reggio Emilia. Il Literarisches Colloquium di Berlino, diretto da Walter Höllerer, nel 1965 invitò autori del Gruppo 63 e furono rappresentati e trasmessi in diretta televisiva due testi di Giuliani e Sanguineti, allestiti da una compagnia italiana con regia di Piero Panza e scenografia di Toti Scialoja.
Nel 1967 fu organizzato a Barcellona un incontro di tre giorni con scrittori, artisti e architetti spagnoli, che si svolse nella Escuela di Diseño (EINA), allora appena inaugurata in una vecchia casa ai piedi del Tibidabo, un po’ isolata e perfetta per un convegno non permesso dalle autorità franchiste, reso molto agevole dalla cura organizzativa di Beatriz de Moura, oggi a capo delle edizioni Tusquets. Parteciparono gli scrittori Carlos Barral, Jaime Gil de Biedma, José Agustìn Goytisolo, Gabriel Ferrater, Juan Marsé, Salvador Clotas, Gabriel Celaya; i critici Josep Castellet, Roman Gubern, Aleixandre Cirici; gli architetti Ricardo Bofill, Oscar Tusquets, Federico Correa e Oriol Bohigas; i pittori Antoni Tàpies e Albert Rafols Casamada; il regista Carlos Saura. Da parte italiana: Luciano Anceschi, Nanni Balestrini, Renato Barilli, Pietro Buttitta, Furio Colombo, Guido Davico Bonino, Gillo Dorfles, Umberto Eco, Inge Feltrinelli, Enrico Filippini, Alfredo Giuliani, Angelo Guglielmi, Germano Lombardi, Giorgio Manganelli, Giulia Niccolai, Elio Pagliarani, Vittorio Gregotti, Antonio Porta, Valerio Riva, Mario Spinella.