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domenica 13 novembre 2011

padri fondatori


La rivista Malebolge vide  la luce sulla metà degli anni Sessanta a Reggio Emilia, .. a metà degli anni Sessanta, dopo la kermesse fondatrice dì Palermo, si riunì nuovamente a Reggio Emilia.
 Il Gruppo 63 costituiva, per dir così, un’orchestra polifonica, con più anime estetiche e ideologiche, ma tutti si riconoscevano nel Verri, e spergiuravano sul libro dei Novissimi, che agli inizi del decennio in questione aveva dato fuoco alle polveri della neoavanguardia. 



L’intenzione dei Novissimi, come per il Gruppo 63, che li ha sempre  riconosciuti come padri fondatori, era quella, detto in soldoni, di creare una contaminazione traumatica della nostra letteratura con quelle vertiginose esperienze di scrittura, praticare dalle avanguardie storiche europee, che il deplorato ventennio aveva mantenuto rigorosamente al di lì dei nostri confini. 

Come l’antologia Americana di Elio Vittorini si era ripromessa di far conoscere agli italiani gli scrittori statunitensi, così il Gruppo 63 voleva fare lo stesso per quel che concerneva tutti i poeti e i romanzieri di cui ci era stata negata l’esperienza. Erano pochi quelli che da noi avevano letto i Cantos di Pound, oppure il poema generale di Neruda, e tantomeno le poesie di Éluard. Non si trattava, però, di progettare un semplice aggiornamento, ma di promuovere una vera e propria rivoluzione linguistica, il passaggio di un paradigma dì scrittura ormai
esaurito a un altro, aperto a tutte le avventure lessicali e sintattiche.


..il surrealismo che sopravviveva soltanto come un fantasma. Per cui ci riproponemmo non di fare gli zombi o i redivivi del surrealismo storico, ma di dare vita a una sua nuova versione possibile, che decidemmo di definire parasurrealista. 
In qualche misura, il parasurrealismo intendeva essere il manierismo del surrealiamo.  Si trattava non di una rivisitazione, ma di una  riformulazione in veste moderna. Si era deciso così di impiegare le tecniche del surrealismo storico, come la scrittura automatica, elevandola alla seconda potenza, e cioè, per fare un esempio, simulando quel dettato dell’inconscio di cui Desnos, nei suoi tenebrosi versi, spergiurava di essersi messo all’ascolto diretto.
 Noi, cinicamente, si fingeva di fare lo stesso, ottenendo risultati simili, ma conseguiti a freddo, senza nessun apporro di voci salite dal profondo. Quelle tecniche combinatorie, di
ascendenza dadaista, che puntavano sul caso come promotore estetico, e di cui i surrealisti avevano fatto un impiego molto frequente, soprattutto nei loro cadaveri squisiti, venivano da noi inserite in qualche algoritmo che rendesse fittizia tutta l’operazione. Insomma, il  parasurrealismo si poneva come finzione consapevole del surrealismo. Le nostre metafore erano pescate dalla poesia di tutti i tempi, ma date come se derivasaero dal gioco spontaneo della interazione, a livello inconscio, tra il desiderio e la censura, la rimozione e il suo affiorare sulla superficie della coscienza. Il parasurrealismo era, insomma, un’esegesi in forma poetica del surrealismol!


Cinquant’anni dopo rivado con la memoria al destino di quei miei fortunosi amici di allora.
Nanni Scolari è stato il primo a mancare all’appello, in circostanze tragiche.
E così Antonio Porta, qualche decennio dopo, quando ormai era un poeta universalmente riconosciuto. Il destino dei tre moschettieri senza D’Artagnan ai proseguì su strade diverse.
 Adriano Spatola si convertì all’editoria e, alla
fine degli anni Sessanta, fondò una piccola essa editrice, Geiger, che fini per costituire nel tempo un importante punto di riferimento per molti giovani poeti.
Un mio volumetto di versi,  il Pesce gotico, inaugurò quella avventura libraria. In seguito Spatola diede vita a una rivista, «Tam Tam», che tenne viva la fiaccola di quella avanguardia, che, nel nostro paese, è andata progressivamente declinando. Nella sua fortezza editoriale, a Mulino di Bazzano, Spatola ha assolto per anni il compito di maestro di una cultura alternativa. Il suo percorso di artista è passato da una poesia di ispirazione surrealista a una poesia concreta, ai confini con la pittura, fatta di lettere sottoposte a una sapiente atte combinatoria, ritagliate e ricombinare variamente, Negli ultimi anni della sua vita si è dato all’happening vocale, e si ricorda il suo poema fonetico Aviation-Aviateur recitato ripetendo ossessivamente queste due parole battendosi contro il petto il microfono. 
Corrado Costa proseguì per la sua strada di poeta giocoliere, potenziando al massimo l’aspetto orale dei suoi versi. Di conseguenza, ha finito per ottenere lo straordinario risultato, mi si consenta il paradosso, di entrare a far parte delle sua poesia, diventando il poema di se stesso. 



Chiunque abbia assistito a una sua lettura della poesia il Fiume, e sia passato subito dopo a leggerla, capirà benissimo il mio discorso. 


Da poeta del «dopo ermetismo», come risulta essere nel suo libro Pseudobaudelaire, Costa ha coltivato una poesia fatta di versi brevi, di bisticci verbali, di equivoci semantici, e ci sembra del tutto legittimo far risalire questa sua verve, spesso di un corrosivo humour nero, all’ineffabile Jarry e alla sua patafisica. I suoi versi erano spesso accompagnati da disegni divertenti, spesso dissacratori e talora porno, con un tratto leggero dse ricorda certe figurette di Matta.

Malebolgie è stata per me un laboratorio, che mi ha insegnato a cercare
che cosa volessi fare davvero della mia vita.
alfabeta2, settembre 2011

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