dieci domande di silvia redente,alessandro chidichimo & compagni ad Alfredo Giuliani
- E’ possibile pensare ad una scrittura immediata? Una scrittura che non sia riscrittura, che non viva anche la lotta con il mezzo espressivo e che non viva di ritorni indietro di cancellature?
- La scrittura quanto vive di rimandi, di contesti letterari e non? E a seguire, è possibile una nozione di originalità e singolarità autoriale?
- Quale pratica di responsabilità della parola è legata ai diversi mezzi, si pensi allo scrivere e annotare a penna sul notes e allo scrivere online su internet. E’ possibile una parola irresponsabile?
- Che legame allora potremmo segnare tra scrittura e identità, tra artigianato scritturale e segno personale?
- E forse l’idea di una presenza, la possibilità così facilitata di tastiera e mouse con l’illusione della perfetta formattazione data dallo schermo, non crea una falsa responsabilità: il poter dire tutto e sempre che diventa un balbettare confuso, una barbaria della lettera?
- Molti affermano che le “nuove tecnologie” stanno decostruendo la scrittura in vista di uno strapotere dell’oralità. E’ lecita un’affermazione del genere oppure rivela un pensare solo ad un testo dialogico, scopertamente e banalmente dialogico dove l’altro è segnato ed è spesso preteso dalla possibilità di una risposta immediata?
- Alla fine non si nasconde “l’altro” tanto immaginifico quanto reale a cui ci rivolgiamo nello scrivere, moltiplicando in questo modo attraverso la pretesa di una presenza le assenze?
- Eppure proprio la presenza in cambio dell’assenza dell’autore tacita nel testo è quella perseguita dai media. Ma come potremmo tracciare una mappa delle specificità della scrittura rispetto all’oralità anche alla luce di questi nuovi media? Su che spazi si deve attestare designandoli come propri la scrittura?
- Ancora di più: c’è un’idea di testo che precede un possibile testo orale e uno scritto, oppure le due diverse modalità si dipanano e si regolano secondo strutture proprie? Oppure sono sempre intrecciati con la preminenza prima dell’uno e poi dell’altro alternativamente in modo che nessun testo orale non è scrivibile, nessun testo scritto non può essere raccontato intorno al fuoco?
- Domanda paradossale e ingenua: ci sono sensi propri dovuti o demandati alla scrittura e altri ad appannaggi o esclusivo dell’oralità?
- Sul lavoro del poeta. Rispetto ai nuovi orizzonti espressivi, rispetto alle arti performative e alla video arte, che ruolo e che presa di posizione (se ce n’è una caratterizzante) riguarda da vicino il poeta?
- Quanto la scrittura poetica ha a che fare con l’oralità e quanto invece è pratica che si riferisce esclusivamente al lavoro della scrittura? In questo senso se i nuovi media spingono verso un’oralità diffusa, quale pratica poetica nel nuovo orizzonte?
- Oggi che ruolo sociale riveste o può rivestire la poesia se si facesse carico di una parola responsabile, di una “parola piena” e tanto spendibile perché poco illustrabile visibilmente nella pubblicizzazione della società. Visibile solo attraverso il suo corpo, la lettera, senza reading da serata televisiva, senza vizio di ambiguità mercantesca?
- Quale futuro per la scrittura?
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Alfredo Giuliani LA POESIA È UNA COSA IN PIU' Non ricordo quando ho scelto la poesia. Da bambino leggevo i libri e i giornali che leggevano tutti i bambini; e forse qualcuno di più: favole, avventure, viaggi. Tra gli undici e i tredici, mi vedo affascinato e immerso, non so proprio perché, nel teatro: Goldoni; Alfieri; Shakespeare (in traduzioni ottocentesche), Metastasio (Didone abbandonata e Attilio Regolo). Dopo i tredici devo aver cominciato con i romanzi (Dickens, Stevenson, Dostoevskji, Dumas). Verso i quattordici divento lettore onnivoro, ricevo in regalo tutti i volumi della collana «I grandi scrittori stranieri» UTET (saranno stati un centinaio) e lì scopro Baudelaire e Shelley (tradotti in prosa). Fu allora, tra i quattordici e i quindici anni; che l'interesse per la poesia prese un certo sopravvento? Può essere, ma non ne sono affatto sicuro. Al ginnasio ebbi per un certo periodo un professore dannunziano. Amavo Leopardi e trovavo D'Annunzio detestabile, anzi repellente. Non sapevo ancora niente della poesia "moderna". Ma ciò che ricordo come un trauma incancellabile è la prima lettura di Rimbaud. Ero sui quindici anni e qualcuno mi dette Una stagione all'inferno e le Illuminazioni tradotte da Oreste Ferrari. Ero incantato, e sconvolto dal venire a sapere che quei poemi in prosa, scritti da un ventenne, risalivano al 1873-74. Stava per scoppiare la seconda guerra mondiale e io, che iniziavo il liceo, avevo messo un piede nella lirica "pura" mentre l'altro correva con gli esametri dell'Odissea (è dal mio maestro di liceo, il giovane Bruno Gentili, che mi venne inoculata la passione per la metrica). Eppure fino ai diciannove, venti anni non tentai di scrivere versi. Mi sentivo inadeguato, immaturo, come avrei potuto competere con Rimbaud? Appena finita la guerra, assorbiti i Lirici nuovi di Luciano Anceschi, lette le prime poesie di Eliot apparse in italiano, provo un altro bellissimo choc; scopro Dylan Thomas. In quegli anni '47-'48, devo essermi detto: è troppo stupendo, il riuscire a scrivere poesie così: bisogna tentare tutto, anche se il rischio di fallire è forte. Se fosse vero che il genio è una lunga pazienza, io un po' di genio dovrei riconoscermelo. Ho avuto molta pazienza, mi sono lungamente ostinato. Tutto il mio lavorìo critico di anni è stato rivolto non allo scopo di farmi un mestiere, ma di aprirmi qualche possibilità reale, visto che sul talento spontaneo non potevo contare. Una attitudine al metodo e alla comprensione critica l'avevo. Da ragazzo m'ero fatto, per mio uso e consumo, una classificazione delle poesie che venivo scoprendo, a scuola e fuori della scuola, Anzitutto: le poesie che mettevano in musica le cose di questo mondo. Quelle di Leopardi per esempio. L'infinito e Il sabato del villaggio potevo connetterle in qualche modo alla mia esperienza della vita. Per quanto scarsa e immatura fosse la mia esperienza reale, potevo capire la bellezza delle poesie leopardiane immaginando una mia possibile coscienza di quelle realtà, Dopotutto, anche per me il sabato era «il più gradito giorno» e l'idea dell'infinito doveva avermi visitato, sicché potevo fingermi di sentirne la sublimità. Poi c'erano le poesie che trattavano cose dell'altro mondo, L'espressione (Cose dell'altro mondo!) l'avevo assimilata felicemente in casa. Ricordo il tono indignato, melodrammatico o comico, con cui quell' espressione polivalente fioriva nell' eloquio vivace di mia nonna e di mia zia mentre scuotevano la testa o sollevavano le braccia al cielo. Nella mia classzficazione, l'altro mondo non era necessariamente l'aldilà, il regno delle ombre. L'ampiezza del mio concetto ragazzesco la devo a quelle care parenti: cose dell'altro mondo erano tutte le cose abnormi, meravigliose, fantastiche, buffe, mitiche che animavano i poemi omerici e la Commedia di Dante. Le poesie che raccontavano cose dell'altro mondo si capivano indipendentemente dall' esperienza personale (magari era utile aiutarsi con le note). Quando scoprii le Illuminazioni di Rimbaud, la mia classificazione si arricchì di una terza categoria (necessaria anche per il fatto che le poesie erano scritte in una per me inaudita prosa), dove andavano a collocarsi i testi che non si potevano capire, ma soltanto sentire, dato che non trattavano cose di questo o dell' altro mondo, ma cose indefinibili, visioni, allucinazioni esistenti forse soltanto nel linguaggio del poeta. Il buono dell'ingenua e sommaria classificazione fu che essa mi permise di accettare la sovrana autorità di tutta la grande poesia, la quale tratta imparzialmente cose di questo e dell'altro mondo, nonché le cose che stanno in nessun luogo se non nella poesia stessa. E la poesia cosiddetta "minore", come si potrebbe fame a me- no? Non butterei mai via le ariette di Metastasio o le odicine del Savio li in favore della Gerusalemme liberata, che trovo magnifica. Non riuscirei a scrivere un poema epico o un intero libro di sonetti. Mi annoierei a morte. Quando ho concepito Il tautofono pensavo che anch'io avrei finalmente scritto i miei «cento canti» in quella forma, che avrei dato fondo all'universo patologico-buffonesco della lirica. Ma dopo lo sforzo di parecchi mesi (in più riprese sono stato circa tre anni dietro a quel progetto), mi sono stancato, la scrittura diventava falsa; forse avevo imparato troppo bene il meccanismo, le variazioni sul tema non m'interessavano più. Il personaggio che parla nel Tautofono non è sempre lo stesso; in ogni caso, è una voce adolescente o poco più che adolescente; è quel ragazzo mattocchio, ardito, naturalmente surrealista, una sorta di Amleto demenziale e borghese, che io ho immaginato rivisitando la mia adolescenza in espressa. Tutti sappiamo che l'adolescenza è una fase di pienezza indifesa, di avventure percettive dove l'immaturità gioca un ruolo positivo-negativo straordinariamente intenso. È il momento in cui l'inconscio e la realtà esterna si pensano nello stesso atto di pensiero. Bagliori e frane, espansioni e accartocciamenti dolorosi, entusiasmo e disprezzo si alternano velocissimi. È l'epoca della vita nella quale ognuno, uomo o donna, prima di essere deformato dalla sua condizione sociale, quale che sia, è visionario e insieme ha una illogica ragionevolezza. Rimbaud è stato il poeta di questa dimensione adolescenziale mai abbastanza esplorata. La mirabolante adolescenza è una catastrofe, le società se ne premunisce, fa in modo che questa transizione nella totalità del percettibile, dell'immaginabile, del desidera bile, questa crescenza pericolosa e irresponsabile, diventi una iniziazione alla routine, scompaia senza lasciare, possibilmente, tracce. L'adolescenza è colma di sensi, e non ha senso, è un'eruzione di significanti senza significato. Territorio dissestato, affascinante, concreto e fantasmatico, che forse non ho mai inteso abbandonare. La poesia che più mi tocca è quella che si tiene alla natura tragicomica del discorso. La passione di spiegarsi è il cuore della poesia enigmatica. Parecchi anni fa - e fu un gesto di insofferenza per le riduzioni ideologiche, contro le ottusità di coloro per i quali la poesia non è un' esperienza - dissi forse un po' troppo recisamente che la poesia non è una forma di conoscenza, ma un modo di contatto con la realtà linguistica (alterità, estraneità del linguaggio con cui la poesia si misura e di cui s'innamora). Ebbene, è probabile che io avessi adoperato involontariamente il termine «contatto con la realtà». Ora, non soltanto l'alterazione del contatto vitale con la realtà è il nucleo del concetto di schizofrenia, ma il contatto è per Minkowski la sorgente autonoma del linguaggio; contatto per natura ambiguo, che non si esaurisce nell'esplicarsi che è sempre alla ricerca della propria definizione. Facendo agire in me tale nozione del «contatto» combattevo il terrorismo ideologico dei moralisti letterari, lo rovesciavo scoprendo che esso era la maschera del terrore che il linguaggio ha di se stesso, o aveva allora. In un passo delle Ricerche filosofiche, Wittgenstein osserva: «Tu dici che la parola "dolore" significa propriamente quel gridare? Al contrario,l'espressione verbale del dolore sostituisce, non descrive, il grido». Alla poesia tale osservazione linguistica sembra ancora troppo semplice. Come può la parola "dolore" - con la sua povera immagine di suono - sostituire il dolore del grido? Per sostituire il grido debbo pensarlo, diventare grido. Posso sentirmi ostile a quell'essere grido, oppure docilmente vinto dalla sua feroce urgenza, oppure,..Il grido,in sé, era un segno significava se stesso. Verbalizzare, scrivere un grido, non è descriverlo, non è sostituirlo semplicemente, È comprenderlo in un'altra significazione. Ecco perché la natura del discorso è tragicomica, Non si sa mai se il discorso è pronunciato dentro o fuori un pensare (pensare la cosa stessa che si dice), Il discorso è Altro, ma è anche mio) può significare la mia malattia che non conosco, un essere, una conseguenza che non penso o non so di pensare, un'eco che mi giunge a frammenti e di cui ignoro la fonte, La poesia esige il massimo della concentrazione e dell'indzfferenza. Nel momento che scrivi devi lasciar fare i neuroni, le sinapsi, o che altro diavolo folleggia in te. Una furibonda poesia di Thomas comincia con questi versi: «How shall my animaI / Whose wizard shape I trace in the cavernous skull, / Vessel of abscesses and exultation's shell, / Endure burial under the spelling wall...». (Come potrà il mio animale, / la cui magica forma rintraccio negli anfratti del cranio, / vaso d'ascessi e guscio d'esultanza) / tollerare la tumulazione sotto il muro sillabato ...». La poesia è una cosa in più, ed è sempre molto meno della gloria cantata dai serafini. Per orientarsi sui problemi della poesia in un dato tempo, bisogna arrivarci dalla parte giusta (genio o ricognizione critica che sia). Per leggerla al suo concepimento e alla sua nascita bisogna aspettarsela. Il nutrimento dell'attesa è il compito più dzf/zàle tra quelli che toccano al poeta. C'è sempre il rischio che il desiderio di poesia non sia altro che un sintomo, La transizione è una costellazione di sintomi, una mancanza, un esaurimento, un baluginare di rivelazioni, attesa e ricerca spasmodica, Può essere accettata e vissuta come uno svolgimento tranquillo di punti precedentemente fissatz; passare quasi inosservata o vista come una fiera di possibilità a portata di mano. Viviamo un sacco di transizioni, ora violente ora af fascinanti, che oscillano paurosamente da una apocalissi all'altra. Siamo i postapocalittici, sopravviviamo al peggio, sappiamo essere persino felici. Un momento acuto della transizione fu proprio quello in cui ho cominciato a scrivere, nel dopoguerra avanzato,fine anni Quaranta. Momento vissuto nella penuria del nuovo, la resistenza del vecchio, l'incipiente affollamento dei segni, la dissociazione rimuginante (chi è l'io che vuole scriversi? i furbi già sapevano, l'aveva scoperto Rimbaud, che Io è un Altro), la schizofrenia planetaria, l'opacità o l'illusoria trasparenza di tutte le tradizioni. Abbiamo sfidato tutti i linguaggi, deliberatamente; non si poteva fare altrimenti, Un enorme lavoro di frammentazione e ricomposizione, che, devo dirlo, mi ha procurato il piacere di scrivere e penose intermittenze, durante le quali mi sembrava di non aver più niente da scrivere, di dover ricominciare da capo per la cento millesima volta. Che mi abbia condizionato la poetica delle Illuminazioni? magari piccole piccole, grottesche, a mala pena spiritose. Mi ha aiutato la passione per la metrica. Una volta il tessuto metrico, la texture, faceva da sfondo prosodico; si stabiliva un'armonia statica e sempre ritornante che il poeta variava con sottili sfumature, o talvolta rompeva mediante intervalli «trovati», durate e intervalli nuovi, discreti, che campivano sullo sfondo dello schema metrico, padrone non assoluto ma onnipresente. Ma quando lo sfondo è consunto, indistinto, sfilacciato, insomma da buttar via? Mi sono trovato a ricostruirmi una prosodia sugli accenti sintagmaticz; a non sentire più la mi- sura delle sillabe, ma quella dei monemi (quando ho letto Martinet ho capito che mi stavo regolando sui monemi senza averli individuati così chiaramente, né tanto meno denominato. Martinet mi ha dato la chiave che cercavo). È stata, finora, una bella e tormentata avventura. Non rinnego niente; non ho niente da superare. Sto scrivendo un solo libro, che va dal 1950 a domam; spero. E le date per me contano poco. Ho una pretesa: ciò che ho scritto nel 1950 deve suonare attuale quanto ciò che ho scritto ieri. Sincronicità di tutti i movimenti, le svolte, gli scarti, i ritorm; le riprese, le fughe in avanti, perché no? Oggi ho preso una nuova svolta, il senso è nel titolo della poesia che appare, e ne sono felice, in questo fascicolo del "Verri", E infine: è stata la poesia a cercare me, anche se io l'aspettavo, me la desideravo. Mi cerca e poi mi dimentica; mi lascia e io mi dimentico di lei. Poi ci ritroviamo e ci capiamo al volo, facciamo follie o chiacchieriamo sereni. La routine non fa per noi. È una relazione che sarebbe straziante, per me, se non mi comportassi, con lei, da fedele opportunista. "Il titolo della poesia è Ebbrezza di placamenti. Il fascicolo citato de "il Verri" è il n. 11-12, 1989, dov'è stato pubblicato originariamente questo intervento. |
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Com'è la vita di questi tempi? Un parossismo di catastrofi.
E che cosa vuol dire, poi, di questi tempi? Vuol dire ai queste settimane, di questi mesi, anni, decenni, secoli? Fate voi: di questi tempi è un presente allegorico.
Resta inteso che a noi pare scrittore degno di nota soltanto chi è capace di significare, in piccolo o in grande, la condizione emotiva e mentale dell'oggi incombente. La condizione reale, effettuale, e quella possibile. Nella categorie del Possibile si muove la lìbertà dello scrittore. Universi rovinosi possono essere raccontati con Grandissima calma. L'ironia può farci partecipare nello stesso istante, nella stessa frase, al tragico e al comico.
Non si può raccontare il parossismo col parossismo, la catastrofe con la catastrofe. Bisogna introdurre nella scrittura la forma ipotetica dell'allegoria, la quale consente di «straniare», di prendere le distanze (per vedere meglio). Bisogna lasciar credere che ci s'impirglia nell'assurdo, nell'incongruo, nei parossismi fittizi dèll'immaginario; come accade generalmente agli umoristi, che si contentano di tali effetti. Bisogna avere l'aria di non dire niente (niente di reale), mentre si sta facendo il possibile proprio per dire le cose come stanno.
Nella scrittura letteraria, l'ironia non è una occasionale figura retorica, è una forma squisitamente allegorica, che pervade l'intero testo, sia esso fulmineo come un aforisma (a proposito, me ne viene in mente uno di Elias Canetti: «Il cretino s'è impadronito della catastrofe»), o lungo come un romanzo.
L'ironia che si espande nei luoghi comuni del linguaggio e li rivoltola e li trascina verso precipizi dei senso o imprevedili sqúarci di bellezza malinconica; assistere a questo processo: i luoghi comuni del Linguaggio che diventano poesia, godímento, tracce esistenziali di un mistero buffo che si svolge inarrestabile nella mente.
Ecco, tutti i personaggi di Klobas si dedicano anima e corpo alla faticosa impresa, tutto sominato gratificante, di sopravvivere emotivamente e mentalmente. Perciò sentono e agiscono dentro una costante tensione allegorica negli affollati labirinti della vita solitaria. Immersi nel senso comune, passano da una catastrofe all'áltra rendendo morbido e duttile il parossismo della normalità (la
quale e’ sempre un’altra cosa, la normalita’ e’ catastrofica) personaggi sospinti a ruzzolare, scivolare,capovolgersi bearsi di stupidate liberatorie nellimmaginario delle frasi. Le loro parole non si arrendono mai.
La sopravvivenza emotiva e mentale comporta I' elaborazione di tutte le ipotesi, I' esecuzione di strategie multiple, di sempre nuove mosse tattiche. Il ridicolo, sempre in agguato, viene disarmato a sorpresa dall'impassibilítà, inghiottito e metabolizzato. Le parole del sopravvivente, puntigliose, instancabili, in perenne colluttazione con I' esistente e con l'inesistente, daranno «pessimo spettacolo di sé», ma ce la faranno.
Prospettive, e sembra andare educatamente per i fatti suoi, estranea alla propria loquacità,
indifferente álle deviazioni demenziali, agli imprevisti che attira, agli éffetti Comici che produce.
Non vorrei fare torto alla struttura a suo modo compatta del libro, ma sta di fatto che in molti dei tredici testi, non in tutti, ho trovato un autore che ha maturato alla perfezione i propri motivi e che ha motivato con maggiore sicurezza, sotto i colpi dell’esperienza, lo straniamento della propria scrittura.
Temi che cosi’ enunciati....se non fosse per la pertinacia allegorica che li trasforma in peripezie del pensiero intenso.
L'ironia non è ironica, spiegò una volta Alberto Savinio ai suoi lettori; diversamente da quanto si crede generalmente, l’ironia e’
seria. Quei temi risibili, nella scrittura di Orari contrari, toccano gli abissi quotidiani del senso e dell'insensatezza. Per convincersene, basta leggere con attenzione i due testi più «teoricí» del libro: Tempo supplementare e Lente deformante.
l1 primo potrebbe valere come una irresistibile conferenza sulla lotta contro il tempo. Qui le frasi si concatènano in sequenze così ben consegnate e montate che perfino I luoghi comuni prescelti nel percorso paradossale suonano come gag. Potremmo anche sussultaré di filosofico riso. L'altro testo, Lente deformante, descrive accuratamente la condizione dello scrittore che vorrebbe descrivere la realtà tale e quale, così come gli accade o gli accadrebbe di percepirla o allucinarla o ricordarla da instancabile osservatore di fenomeni e scrutatore di destini. Descrivere la morte in persona, fin dal suo primo timido apparire, mentre
egli sta morendo. Insomma serivere «come fosse lui stesso la morte che si autodesciive», morire con la penna in mano, questo sarebbe il massimo dei realismo e lo ripagherebbe degli enormi sacrificí compiuti per identificarsi con le parti in causa. Il libro termina con una svolta inattesa, poche righe in cui l'allegoria non è più ipotetica, non è più dimensione puramente mentale perché ha preso corpo in una realtà delicata, felice e inevitabilmente fragile
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