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sabato 28 gennaio 2017

con Alfredo Giuliani

Orari contrari con Alfredo Giuliani Sono andato molte volte in questi anni con il treno metropolitano da Alfredo Giuliani in cerca d’aiuto, l’ultima per un impegno con l’Università d’insegnare scrittura e farlo da illetterato sporgendomi sulle nuove tecnologie digitali. Avevo adocchiato nella sua bella casa certi collages promettenti e mi dicevo che se a tenerli era Giuliani, di sicuro c’era del buono; se poi era lui l’autore con Novelli e gli altri, allora bisognava proprio che sapessi. Evitando accuratamente di approfondire l’argomento, pregustando gli eventi, mi misi d’accordo per andare da lui con la mia camera. Si arrampicò su una scaletta alquanto precaria e cominciammo dal primo in alto, nell’ingresso, mettendo in allarme Rupert che non era stato avvertito delle riprese - i suoi abbai infatti sono l’incipit, la sigla. Da pretesto il collage, ben presto, si fece fido conduttore ed io seppi a lungo cosa dire agli studenti ad Arcavacata, delle peripezie dell’arte, della sperimentazione e delle tecnologie dell’alfabeto in tempi non sospetti; dalla sua esperienza in Rai, dalla docenza a Bologna al Dams, muovemmo a ritroso per l’esperienza vertiginosa degli anni cinquanta e sessanta alla raccolta di spunti per la composizione e la progettazione di artefatti comunicativi per chi fosse alle prese oggi con l’immensa tavolozza del web e con il nuovo repentino abbassamento della lingua nelle pubblicazioni digitali. «Non ricordo quando ho scelto la poesia. Da bambino leggevo i libri e i giornali che leggevano tutti i bambini; e forse qualcuno di più: favole, avventure, viaggi. Tra gli undici e i tredici, mi vedo affascinato e immerso, non so proprio perché, nel teatro: Goldoni; Alfieri; Shakespeare (in traduzioni ottocentesche), Metastasio (Didone abbandonata e Attilio Regolo). Dopo i tredici devo aver cominciato con i romanzi (Dickens, Stevenson, Dostoevskji, Dumas). Verso i quattordici divento lettore onnivoro, ricevo in regalo tutti i volumi della collana «I grandi scrittori stranieri» UTET (saranno stati un centinaio) e lì scopro Baudelaire e Shelley (tradotti in prosa). Fu allora, tra i quattordici e i quindici anni; che l’interesse per la poesia prese un certo sopravvento? Può essere, ma non ne sono affatto sicuro. Al ginnasio ebbi per un certo periodo un professore dannunziano. Amavo Leopardi e trovavo D’Annunzio detestabile, anzi repellente. Non sapevo ancora niente della poesia “moderna”. Ma ciò che ricordo come un trauma incancellabile è la prima lettura di Rimbaud. Ero sui quindici anni e qualcuno mi dette Una stagione all’inferno e le Illuminazioni tradotte da Oreste Ferrari. Ero incantato, e sconvolto, dal venire a sapere che quei poemi in prosa, scritti da un ventenne, risalivano al 1873-74. Stava per scoppiare la seconda guerra mondiale e io, che iniziavo il liceo, avevo messo un piede nella lirica “pura” mentre l’altro correva con gli esametri dell’Odissea (è dal mio maestro di liceo, il giovane Bruno Gentili, che mi venne inoculata la passione per la metrica). Eppure fino ai diciannove, venti anni non tentai di scrivere versi.(..)» (Alfredo Giuliani, La poesia è una cosa in più, Ebbrezza di placamenti, il Verri”, n.11-12, 1989) La sua biografia per affrontare l’insicurezza dei giovani allievi, di chi non può provarsi e finisce col perdersi nell’afasia operosa dell’agire compulsivo studentesco; per me e i miei protetti, dire come usò l’autoanalisi per autorizzarsi da sé alla scrittura e alla poesia; come avesse maturato le scelte dei poeti nuovi e il sodalizio con Anceschi. Cercai con il video e i luoghi della rete che andavamo popolando, non qualcosa da aggiungere in gara col racconto, piuttosto con l’ascolto e le note a margine delle corrispondenze - non un vero e proprio metodo che s’ispirasse al modo di ricercare che poi condusse dai collage e le pièce alle Poesie di teatro, a riportare alla tipografia quel che circolava nell’ambiente, nei media, nelle performance, nei convegni - tecniche, utensili che divenissero strumenti nel procedere della sperimentazione, oggi come allora. Nei Media Sincronizzati a base testuale di Orfeo, Luigi, Valeria, Daniele, Rosario e via via degli altri, con gli studi per esempio sul paratesto di Ale e Silvia che attivavano il laboratorio a distanza, nelle interfacce mobili e dinamiche di Nicola e Francesco, con i report degli avatar più originali in ascolto e visione, trovammo con Alfredo tracce ed echi bastanti per continuare a vederci e a registrare, tanto che ad un certo punto si decise di studiare per esempio Quindici e magari poi Il cavallo di Troia, riviste guida che fornivano le piattaforme ideali della condivisione e del lavoro cooperativo per i gruppi di lavoro in rete. «Quindici è un giornale fondato sulla fiducia interna, non sulla routine professionistica. Un gruppo di scrittori lo ha inventato dal nulla, e io sono uno di questi. Credevamo di poter fare una cosa che allargasse un poco la nostra udienza, e l’abbiam fatta. Abbiamo avuto successo, più di quanto noi stessi speravamo. Il merito non è mio, né del direttore editoriale. Il merito è della. fiducia reciproca che ha sorretto tutti noi. Io stesso, quale responsabile, non ero che un fiduciario del collettivo. Nessuno mi ha tolto la fiducia, e io la conservo da parte mia per tutti i collaboratori. Dunque perché, «sul più bello», ho deciso di andarmene? È difficile da spiegare, e mi ci proverò. Forse occorrerebbe un lungo discorso, una cronistoria minuziosa. Negli ultimi tempi mi estenuavo, più che a raccogliere il «materiale», in lotte sempre meno allegre per bloccare le infiltrazioni di materiale oscuro e demagogico. Il mio crescente disagio nasceva dalla sensazione sempre più opprimente di essere entrato, quasi senza accorgermene, nella Ortodossia del Dissenso. Sia chiaro che io sono stato felice di pubblicare nei numeri scorsi certi documenti: le carte rivendicative degli studenti dell’Università di Torino, la teologia della violenza, la protesta dei cittadini di Orgosolo, sono fatti che noi abbiamo portato per primi all’attenzione di una grande cerchia di lettori, fatti che era giusto parlassero con il loro linguaggio. Ma il materiale di cui è composta una rivista è forse meno importante dell’atmosfera in cui viene proposto. Il passaggio dal documento o dall’argomento «giusto» al documento o all’argomento «facile» avviene in maniera percettibile ma subdola. Comincia il ricatto psicologico della cosa di cui si deve parlare. Il Dissenso diventa una merce che bisogna fornire. Non si ragiona più se non col Dissenso Comune.(..)» (Editoriale, Perché lascio la direzione di « QUINDICI » di Alfredo Giuliani). Non so più come fu che un giorno incorremmo nei dizionari e nei vocabolari e ci fu un’epifania da registrare – fui pronto con il videotelefono: “Tommaseo, alla lettera M, Morte, senti: Passione a cui sottostà il corpo quando l’anima cessa di ravvivarlo, capisci, la mentalità che ci sta sotto? Per questo bacchettone spiritualista, la morte non è un fenomeno ma una passione! Così alla fine quando hai letto la definizione sai cos’è la morte, ma non sai cos’è la vita.” Poco male che non si faccia lezione ad Arcavacata, e non si risponda sul web alle domande dei “ragazzi”, anche se mi disse lui stesso dopo un po’ di ritornare a farlo quando si fosse placato il mio disinganno: il maestro amico dovrà rispondere da molto lontano alle nostre domande, starà a noi raccorciare le distanze, oppure rimetterle e chiamarlo accanto. «L’ironia non è ironica, spiegò una volta Alberto Savinio ai suoi lettori; diversamente da quanto si crede generalmente, l’ironia è seria. Quei temi risibili, nella scrittura di Orari contrari (di Lucio Klobas), toccano gli abissi quotidiani del senso e dell’insensatezza. Per convincersene, basta leggere con attenzione i due testi più «teoricí» del libro: Tempo supplementare e Lente deformante. Il primo potrebbe valere come una irresistibile conferenza sulla lotta contro il tempo. Qui le frasi si concatenano in sequenze così ben congegnate e montate che perfino i luoghi comuni prescelti nel percorso paradossale suonano come gag. Potremmo anche sussultare di filosofico riso. L’altro testo, Lente deformante, descrive accuratamente la condizione dello scrittore che vorrebbe descrivere la realtà tale e quale, così come gli accade o gli accadrebbe di percepirla o allucinarla o ricordarla da instancabile osservatore di fenomeni e scrutatore di destini. Descrivere la morte in persona, fin dal suo primo timido apparire, mentre egli sta morendo. Insomma scrivere «come fosse lui stesso la morte che si autodescrive », morire con la penna in mano, questo sarebbe il massimo del realismo e lo ripagherebbe degli enormi sacrificí compiuti per identificarsi con le parti in causa. Il libro termina con una svolta inattesa, poche righe in cui l’allegoria non è più ipotetica, non è più dimensione puramente mentale perché ha preso corpo in una realtà delicata, felice e inevitabilmente fragile». (Alfredo Giuliani, La Repubblica, su “Orari contrari” di Klobas) i materiali relativi su http://uniet.it

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