Orari contrari
con Alfredo Giuliani Sono andato molte volte in questi anni con il
treno metropolitano da Alfredo Giuliani in
cerca d’aiuto, l’ultima per un impegno con
l’Università d’insegnare scrittura e farlo da illetterato
sporgendomi sulle nuove tecnologie
digitali. Avevo adocchiato nella sua bella casa
certi collages promettenti e mi dicevo che
se a tenerli era Giuliani, di sicuro c’era del
buono; se poi era lui l’autore con Novelli e gli
altri, allora bisognava proprio che sapessi.
Evitando accuratamente di approfondire l’argomento,
pregustando gli eventi, mi misi
d’accordo per andare da lui con la mia camera.
Si arrampicò su una scaletta alquanto precaria
e cominciammo dal primo in alto, nell’ingresso,
mettendo in allarme Rupert che non
era stato avvertito delle riprese - i suoi abbai
infatti sono l’incipit, la sigla. Da pretesto il collage,
ben presto, si fece fido conduttore ed io
seppi a lungo cosa dire agli studenti ad Arcavacata,
delle peripezie dell’arte, della sperimentazione
e delle tecnologie dell’alfabeto in
tempi non sospetti; dalla sua esperienza in Rai,
dalla docenza a Bologna al Dams, muovemmo
a ritroso per l’esperienza vertiginosa degli anni
cinquanta e sessanta alla raccolta di spunti
per la composizione e la progettazione di artefatti
comunicativi per chi fosse alle prese oggi
con l’immensa tavolozza del web e con il
nuovo repentino abbassamento della lingua
nelle pubblicazioni digitali.
«Non ricordo quando ho scelto la poesia. Da
bambino leggevo i libri e i giornali che leggevano
tutti i bambini; e forse qualcuno di più:
favole, avventure, viaggi. Tra gli undici e i
tredici, mi vedo affascinato e immerso, non so
proprio perché, nel teatro: Goldoni; Alfieri;
Shakespeare (in traduzioni ottocentesche),
Metastasio (Didone abbandonata e Attilio Regolo).
Dopo i tredici devo aver cominciato con i
romanzi (Dickens, Stevenson, Dostoevskji,
Dumas). Verso i quattordici divento lettore
onnivoro, ricevo in regalo tutti i volumi della
collana «I grandi scrittori stranieri» UTET (saranno
stati un centinaio) e lì scopro Baudelaire
e Shelley (tradotti in prosa). Fu allora, tra i
quattordici e i quindici anni; che l’interesse
per la poesia prese un certo sopravvento? Può
essere, ma non ne sono affatto sicuro. Al ginnasio
ebbi per un certo periodo un professore
dannunziano. Amavo Leopardi e trovavo
D’Annunzio detestabile, anzi repellente. Non
sapevo ancora niente della poesia “moderna”.
Ma ciò che ricordo come un trauma incancellabile
è la prima lettura di Rimbaud. Ero sui
quindici anni e qualcuno mi dette Una stagione
all’inferno e le Illuminazioni tradotte da Oreste
Ferrari. Ero incantato, e sconvolto, dal venire
a sapere che quei poemi in prosa, scritti
da un ventenne, risalivano al 1873-74. Stava
per scoppiare la seconda guerra mondiale e io,
che iniziavo il liceo, avevo messo un piede
nella lirica “pura” mentre l’altro correva con
gli esametri dell’Odissea (è dal mio maestro di
liceo, il giovane Bruno Gentili, che mi venne
inoculata la passione per la metrica). Eppure
fino ai diciannove, venti anni non tentai di
scrivere versi.(..)» (Alfredo Giuliani, La poesia
è una cosa in più, Ebbrezza di placamenti, il Verri”,
n.11-12, 1989)
La sua biografia per affrontare l’insicurezza
dei giovani allievi, di chi non può provarsi e
finisce col perdersi nell’afasia operosa dell’agire
compulsivo studentesco; per me e i
miei protetti, dire come usò l’autoanalisi per
autorizzarsi da sé alla scrittura e alla poesia;
come avesse maturato le scelte dei poeti nuovi
e il sodalizio con Anceschi. Cercai con il video
e i luoghi della rete che andavamo popolando,
non qualcosa da aggiungere in gara col
racconto, piuttosto con l’ascolto e le note a
margine delle corrispondenze - non un vero e
proprio metodo che s’ispirasse al modo di ricercare
che poi condusse dai collage e le pièce
alle Poesie di teatro, a riportare alla tipografia
quel che circolava nell’ambiente, nei media,
nelle performance, nei convegni - tecniche,
utensili che divenissero strumenti nel
procedere della sperimentazione, oggi come
allora.
Nei Media Sincronizzati a base testuale di Orfeo,
Luigi, Valeria, Daniele, Rosario e via via
degli altri, con gli studi per esempio sul paratesto
di Ale e Silvia che attivavano il laboratorio
a distanza, nelle interfacce mobili e dinamiche
di Nicola e Francesco, con i report degli
avatar più originali in ascolto e visione, trovammo
con Alfredo tracce ed echi bastanti
per continuare a vederci e a registrare, tanto
che ad un certo punto si decise di studiare per
esempio Quindici e magari poi Il cavallo di Troia,
riviste guida che fornivano le piattaforme
ideali della condivisione e del lavoro cooperativo
per i gruppi di lavoro in rete.
«Quindici è un giornale fondato sulla fiducia
interna, non sulla routine professionistica. Un
gruppo di scrittori lo ha inventato dal nulla, e
io sono uno di questi. Credevamo di poter fare
una cosa che allargasse un poco la nostra
udienza, e l’abbiam fatta. Abbiamo avuto successo,
più di quanto noi stessi speravamo. Il
merito non è mio, né del direttore editoriale.
Il merito è della. fiducia reciproca che ha sorretto
tutti noi. Io stesso, quale responsabile,
non ero che un fiduciario del collettivo. Nessuno
mi ha tolto la fiducia, e io la conservo da
parte mia per tutti i collaboratori. Dunque
perché, «sul più bello», ho deciso di andarmene?
È difficile da spiegare, e mi ci proverò.
Forse occorrerebbe un lungo discorso, una
cronistoria minuziosa. Negli ultimi tempi mi
estenuavo, più che a raccogliere il «materiale»,
in lotte sempre meno allegre per bloccare le infiltrazioni
di materiale oscuro e demagogico.
Il mio crescente disagio nasceva dalla sensazione
sempre più opprimente di essere entrato,
quasi senza accorgermene, nella Ortodossia
del Dissenso. Sia chiaro che io sono stato
felice di pubblicare nei numeri scorsi certi documenti:
le carte rivendicative degli studenti
dell’Università di Torino, la teologia della violenza,
la protesta dei cittadini di Orgosolo, sono
fatti che noi abbiamo portato per primi all’attenzione
di una grande cerchia di lettori,
fatti che era giusto parlassero con il loro linguaggio.
Ma il materiale di cui è composta
una rivista è forse meno importante dell’atmosfera
in cui viene proposto. Il passaggio
dal documento o dall’argomento «giusto» al
documento o all’argomento «facile» avviene
in maniera percettibile ma subdola. Comincia
il ricatto psicologico della cosa di cui si deve
parlare. Il Dissenso diventa una merce che
bisogna fornire. Non si ragiona più se non col
Dissenso Comune.(..)» (Editoriale, Perché lascio
la direzione di « QUINDICI » di Alfredo
Giuliani).
Non so più come fu che un giorno incorremmo
nei dizionari e nei vocabolari e ci fu
un’epifania da registrare – fui pronto con il videotelefono:
“Tommaseo, alla lettera M, Morte,
senti: Passione a cui sottostà il corpo quando
l’anima cessa di ravvivarlo, capisci, la mentalità
che ci sta sotto? Per questo bacchettone spiritualista,
la morte non è un fenomeno ma una
passione! Così alla fine quando hai letto la definizione
sai cos’è la morte, ma non sai cos’è
la vita.”
Poco male che non si faccia lezione ad Arcavacata,
e non si risponda sul web alle domande
dei “ragazzi”, anche se mi disse lui stesso
dopo un po’ di ritornare a farlo quando si fosse
placato il mio disinganno: il maestro amico
dovrà rispondere da molto lontano alle nostre
domande, starà a noi raccorciare le distanze,
oppure rimetterle e chiamarlo accanto.
«L’ironia non è ironica, spiegò una volta Alberto
Savinio ai suoi lettori; diversamente da
quanto si crede generalmente, l’ironia è seria.
Quei temi risibili, nella scrittura di Orari contrari
(di Lucio Klobas), toccano gli abissi quotidiani
del senso e dell’insensatezza. Per convincersene,
basta leggere con attenzione i due
testi più «teoricí» del libro: Tempo supplementare
e Lente deformante.
Il primo potrebbe valere come una irresistibile
conferenza sulla lotta contro il tempo. Qui
le frasi si concatenano in sequenze così ben
congegnate e montate che perfino i luoghi comuni
prescelti nel percorso paradossale suonano
come gag. Potremmo anche sussultare
di filosofico riso. L’altro testo, Lente deformante,
descrive accuratamente la condizione dello
scrittore che vorrebbe descrivere la realtà
tale e quale, così come gli accade o gli accadrebbe
di percepirla o allucinarla o ricordarla
da instancabile osservatore di fenomeni e
scrutatore di destini. Descrivere la morte in
persona, fin dal suo primo timido apparire,
mentre egli sta morendo. Insomma scrivere
«come fosse lui stesso la morte che si autodescrive
», morire con la penna in mano, questo
sarebbe il massimo del realismo e lo ripagherebbe
degli enormi sacrificí compiuti per identificarsi
con le parti in causa. Il libro termina
con una svolta inattesa, poche righe in cui l’allegoria
non è più ipotetica, non è più dimensione
puramente mentale perché ha preso corpo
in una realtà delicata, felice e inevitabilmente
fragile». (Alfredo Giuliani, La Repubblica,
su “Orari contrari” di Klobas)
i materiali relativi su http://uniet.it
Nessun commento:
Posta un commento