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martedì 12 ottobre 2010

Marino Moretti a filo ritorto

MARINO MORETTI A FILO RITORTO

Marino Moretti è stato, fin dalle ormai lontanissime origini, uno scrittore di sottofondi e di malizie, ben altrimenti ambiguo del suo coetaneo e rivale Guido Gozzano. Il poeta della Signorina Felicita mori nel 1916, a meno di trentatré anni; e Moretti è giunto nel 1975 ai novanta. Per una specie di impronta storica con cui la critica li ha segnati, la concorrenza è divenuta inevitabile; e Moretti non ha mai smesso di contrastare a Gozzano il primato nella poesia “crepuscolare”, in quella poesia-prosa, dimessa e ironica, che rappresenta senza dubbio l’ingresso del modernismo nella lirica italiana. Quando a decenni di distanza dalla stagione crepuscolare, fiorita intorno agli anni Dieci, Moretti confesserà questa sua tenace ambizione, lo farà nella sua tipica maniera semplice e ritorta, di sapiente estraniazione: “Come sono lontano I da quella tomba che vidi ad Agliè! / Ebbene, io so che cosa vuoi per te: / superare Gozzano. / Altri tempi. Oggi il tempo è disumano, / e tiene tutti i suoi doni per sé..

Ma nelle poesie scritte da Moretti nello straordinario decennio della longevità, pressappoco dal 1965 a oggi, ci sono testimonianze più preziose, e per esempio questa:

“Come fioriva la parola “triste” / nei versi giovanili, ed ero allegro! / Ora ben so ch’io fui come poeta, / e più ancor nella vita, / scarsamente sincero; / e la parola che

più spesso insiste / nella pagina stanca, anzi sgradita, / fa sì ch’io scioccamente la ripeta, / ma non potrei più dire sono triste” / se lo sono davvero”. Che è una bella lezione di letteratura: un repertorio tematico non ha senso letterale, e non è psicologicamente “vero” neppure nel più egotista dei poeti lirici. Moretti ci costringe a rivedere quanto c’è di presunto e di realmente significante nella poesia crepuscolare: “La strofetta all’antica / non lo sai perché piaccia. / È una piccola ombra che s’affaccia / a dir più che non dica”.

Gli anni della fioritura crepuscolare sono quelli in cui i giovani poeti si vergognano di essere tali. L’unico che soffre non tanto di essere poeta quanto di non esserlo è l’ingenuo fanciullo Corazzini, il romano morto di tisi a ventun anni nel 1907, famoso per quattro o cinque poesie di trasparente e favoleggiato patetismo. Tutti gli altri e fanno della necessità storica virtù e mestiere; e la vergogna è dichiarata con ironia da Gozzano, con allegria dal funambolo Palazzeschi, con malizioso disincanto da Mo-retti. Dietro la loro maniera rinunciataria e masochistica c’è il rifiuto traumatico della pseudo-razionalità civico-borghese, della insidiosa sontuosità verbale del classicismo dannunziano. Il Vate è un totem che viene debitamente ucciso e le cui spoglie sono spartite e inghiottite un po’ da tutti. È così possibile confermare e sviluppare una convenzione ‘scapigliata’ (già fissata nel secondo Ottocento): quella del poeta senza destino, gettato nell’universo, buttato in un angolo, orfano della società e delle muse, nauseato dell’oratoria.

Ma questo poeta umiliato è felice, benché lo dica assai di rado, di aver scoperto un territorio stilistico sempre nuovamente percorribile: col suo realismo interiore (è un verista dell’anima, o crede di esserlo) umilia la realtà. Dai fenomeni della natura, dalla città industriale, dagli oggetti di una civiltà sconnessa e sempre più precipitosa e violenta, cerca di trarre gli inventari più reietti, le preziosità più povere, l’esemplare o il catalogo di analogie che esprimono lo sperdimento, la fiochezza, la desolazione, l’estraneità. È famoso l’attacco di una poesia di Moretti apparsa in volume nel 1915: “Piove. È mercoledì. Sono a Cesena, / ospite della mia sorella sposa, / sposa da sei, da sette mesi appena”. Questo tono distaccato e un po’ distratto è un graffio alla realtà degli altri. C’è anche chi reagisce con tratti burleschi e provocatori, o chi, come Ungaretti, oserà chiamarsi “poeta” senza attenuazioni nel momento in cui i panni del soldato in guerra lo ripareranno dalla viltà borghese esponendolo al coraggio di affermare la propria vitalità di “creatura”. Il poeta, comunque sia, ha cessato di sentirsi demiurgo e visionario; per diventare, però, un sottile persuasore di equivoci e di piaceri storti.

Si sono visti fin troppo bene gli aspetti languidi e piangevoli della poesia crepuscolare, si è vista l’ironia, non si è fatto gran caso alla perfidia e all’ambiguità delle manovre crepuscolari, non si è visto bene quanto di ‘decadente’ (dal punto di vista, almeno, tematico dell’agonia romantica) viene sottilmente macerato in poeti dall’apparenza così inoffensiva. E dire che Moretti nella prefazione a Poesie scritte col lapis (1910) citava con raffinata intenzione di espressività addirittura Oscar Wilde. E sarebbe bastato dedicare una non frettolosa indagine psicoanalitica all’incantevole crudeltà di un poemetto, molto Primo Novecento, come “Il sogno di Pasquetta” con quella serva sognatrice che uccide “per sbaglio” la piccioncina in luogo del piccione maschio compiendo così la simbolica eliminazione della padroncina rivale vincitrice in amore! E lei lo sa, di essersi presa una “dolce vendetta”!

Non ci stupiremo, dunque, se Moretti tornando da vegliardo alla poesia vi si ritragga sempre meno tenero. Ammiriamo invece, e questa è stupefacente davvero, la sua inesorabile grazia e bravura nel parlare di sé, caso forse unico di antico-moderno: “Scrivere è malattia com’è buona salute. / ... / Scrivere è proprio tutto, amare e disamare, / volere il bello e il brutto, tenersi monte e mare”. Scrivere versi è ancora per lui “parlar di sé all’infinito”. Senza poter rinnegare il suo pascolismo di origine (non è questa la sua novità), Moretti ha imparato a straziare un po’ il verso, che tende sempre a venirgli argutamente


Giuliani A., “Le droghe di Marsiglia”, Adelphi, pag. 232

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