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martedì 12 ottobre 2010

Montale

MONTALE

è riuscito a trasmettere ai suoi successori gli abbozzi di una poetica che egli, votato alla sovrabbondanza vistosa e aulica, non era sempre in grado di praticare. Tutti coloro che hanno ‘attraversato’ D’Annunzio con intelligenza — da Gozzano a Ungaretti a Montale — lo hanno ‘ridotto’ e combinato con altri influssi cercando di sfruttare la sua energia neutralizzandone la retorica.

Del resto D’Annunzio, subito contaminato e corretto con Sbarbaro e Boine e Gozzano, non è che l’iniziale innescatore di una serie pressoché ininterrotta di contraccolpi tematici e stilistici che Montale (o meglio la sua impressiva memoria) ha ricevuto via via dalla tradizione antica e moderna, italiana e straniera. La capacità artistica di Montale è grande nel filtrare, con l’avarizia dell’autenticità, l’informazione poetica altrui, gli venga da Dante o da Yeats o da Mallarmé. E si aggiunga l’attitudine, cresciuta con gli anni, a individuare contemporaneamente i valori fonici e la più concreta semanticità della lingua, a usare con maestria le metafore più attutite, a unire il prezioso e il comune in sintesi rapide e dal disegno incisivo. Il fraseggio montaliano ha una peculiarità sempre distinguibile, che è data dallo spessore stilistico dei vocaboli e dei moduli sintattici e da una concentrazione di tono come signorilmente distratto, mai volontaristico, agevole e necessitato anche se leggermente stravagante.

Montale è probabilmente il più conservatore dei poeti ‘moderni’ ed è moderno da cinquant’anni. Forse perché è riuscito a tenere miracolosamente in piedi, senza sbavature di eloquenza, una storia tutta individuale, spesso cifrata ma non ermetica, di equilibri rovesciati: ha fatto lo scettico con passione, il laico con religiosità, il materialista con allusività metafisica, il visionario con razionalità. Come ha vissuto insieme il senso della necessità e della gratuità dell’esistenza, e dunque il peso dei malcerti confini tra la ragione e l’assurdo, così ha scritto versi per comunicare “quel quid al quale le parole sole non arrivano”.

Alla sua accorta sfiducia nel linguaggio (che è poi la conseguenza crepuscolare del simbolismo fine-di-secolo) e al suo modo reticente e scabro di dire il sentimento della realtà noi dobbiamo l’incantesimo di certi suoi versi e l’enigma insoluto di certi altri. Dobbiamo a questa poetica l’uso semantico degli oggetti, l’apparizione brusca delle cose che vivono di vita propria e che il poeta percepisce a strappi, a lampi, e che sarebbero tali anche se egli non le guardasse e non le riconoscesse.

Il poeta è un nomenclatore di situazioni, il registratore semiautomatico, insieme frecciante e sonnambolico, dei fenomeni che fanno sbandare, accecano o aiutano l’identificazione, questo processo psicologico in cui si rivela “l’infinità dell’individuo limitato”. La riduzione che Montale ha operato nella panica esaltazione esistenziale del D’Annunzio, ricavandone la problematicità e il profondo sperdimento nella natura, vissuta in negativo (perché è il momento “di guardare le forme / della vita che si sgretola”), si riflette puntualmente non solo nel puro probabilismo, nell’accidentalità dei “triti fatti” che egli registra, ma soprattutto nel tormentoso rapporto con l’altro, ridotto a fantasma (dunque presenza allusiva, che può svanire e lasciarti il tuo vuoto o assumere sembianza di angelo salvatore e accompagnarti nella memoria). Falotico e fortunoso è il processo di identificazione col fantasma dell’altro (che è, di volta in volta o nello stesso tempo, l’alterità dell’io, l’estraneità del vissuto, il metafisico Altro, l’amore, la donna sfuggente e catturante). La storia della poesia di Montale si compone di tali momenti discontinui e quasi medianici che il discorso razionale cerca di fissare dall’interno. Proprio perché tutta interiore ma indiretta, la poesia di Montale si affiderà sempre più all’intensa evocazione degli oggetti esterni.

Negli Ossi le aride scogliere delle Cinque Terre battute dai venti mutevoli, il mare che corrode i greti petrosi, le agavi che si levavano tra le rocce, gli uccelli volteggianti nella luce abbagliante, l’accendersi e lo svanire dei colori, i limoni e i girasoli che vincono il grigio con la loro modesta solarità sono tutti segni di un mondo che sorregge appena l’uomo; la sua presenza è dubbiosa, estenuata, e

Giuliani A., “Le droghe di Marsiglia”, Adelphi, pag. 241

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