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mercoledì 13 marzo 2013

Marino Moretti a filo ritorto

Marino Moretti è stato, fin dalle ormai lontanissime
origini, uno scrittore di sottofondi e di malizie, ben al-
trimenti ambiguo del suo coetaneo e rivale Guido Gozza-
no. Il poeta della Signorina Felicita morì nel 1916, a me-
no di trentatré anni; e Moretti e giunto nel 1975 ai no-
vanta. Per una specie di impronta storica con cui la criti-
ca li ha segnati, la concorrenza è divenuta inevitabile; e
Moretti non ha mai smesso di contrastare a Gozzano il
primato nella poesia «crepuscolare», in quella poesia-
prosa, dimessa e ironica, che rappresenta senza dubbio
l’ingresso del modernismo nella lirica italiana. Quando a
decenni di distanza dalla stagione crepuscolare, fiorita in-
torno agli anni Dieci, Moretti confesserà questa sua tena-
ce ambizione, lo farà nella sua tipica maniera semplice e
ritorta, di sapiente estraniazione: «Come sono lontano /
da quella tomba che vidi ad Aglie! / Ebbene, io so che
cosa vuoi per te: / superare Gozzano. / Altri tempi. Og-
gi il tempo è disumano, / e tiene tutti i suoi doni per sé ».
Ma nelle poesie scritte da Moretti nello straordinario
decennio della longevità, pressappoco dal 1965 a oggi, ci
sono testimonianze più preziose, e per esempio questa:
«Come fioriva la parola «triste» / nei versi giovanili, ed
ero allegro! / Ora ben so ch’io fui come poeta, / e più
ancor nella vita, / scarsamente sincero; / e la parola che

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più spesso insiste / nella pagina stanca, anzi sgradita, / fa
sì ch’io scioccamente la ripeta, / ma non potrei più dire
«sono triste» / se lo sono davvero». Che è una bella
lezione di letteratura: un repertorio tematico non ha
senso letterale, e non è psicologicamente «vero» neppure
nel più egotista dei poeti lirici. Moretti ci costringe a ri-
vedere quanto c’è di presunto e di realmente significan-
te nella poesia crepuscolare: «La strofetta all’antica /
non lo sai perché piaccia. / E una piccola ombra che s’af-
faccia / a dir più che non dica».
Gli anni della fioritura crepuscolare sono quelli in cui
i giovani poeti si vergognano di essere tali. L’unico che
soffre non tanto di essere poeta quanto di non esserlo é
l’ingenuo fanciullo Corazzini, il romano morto di tisi a
ventun anni nel 1907, famoso per quattro o cinque poe-
sie di trasparente e favoleggiato patetismo. Tutti gli altri
fanno della necessità storica virtù e mestiere; e la vergo-
gna é dichiarata con ironia da Gozzano, con allegria dal
funambolo Palazzeschi, con malizioso disincanto da Mo-
retti. Dietro la loro maniera rinunciataria e masochistica
c’e il rifiuto traumatico della pseudomazionalità civico-
borghese, della insidiosa sontuosità verbale del classicismo
dannunziano. Il Vate é un totem che viene debitamente
ucciso e le cui spoglie sono spartite e inghiottite un po’
da tutti. E cosi possibile confermare e sviluppare una con-
venzione ‘scapigliata’ (gia fissata nel secondo Ottocento):
quella del poeta senza destino, gettato nell’universo, but-
tato in un angolo, orfano della società e delle muse, nau-
seato dell’oratoria.
Ma questo poeta umiliato è felice, benché lo dica assai
di rado, di aver scoperto un territorio stilistico sempre
nuovamente percorribile: col suo realismo interiore (e un
verista dell’anima, o crede di esserlo) umilia la realtà. Dai
fenomeni della natura, dalla citta industriale, dagli og-
getti di una civiltà sconnessa e sempre più precipitosa e
violenta, cerca di trarre gli inventari più reietti, le prezio-
sità più povere, l’esemplare o il catalogo di analogie che
esprimono lo sperdimento, la fiochezza, la desolazione,
l'estraneità. E' famoso l’attacco di una poesia di Moretti ap-

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parsa in volume nel 1915: «Piove. E' mercoledì. Sono a
Cesena, / ospite della mia sorella sposa, / sposa da sei, da
sette mesi appena». Questo tono distaccato e un pò di-
stratto e un graffio alla realta degli altri. C’è anche chi
reagisce con tratti burleschi e provocatori, o chi, come Un-
garetti, oserà chiamarsi «poeta» senza attenuazioni nel
momento in cui i panni del soldato in guerra lo ripare-
ranno dalla viltà borghese esponendolo al coraggio di af-
fermare la propria vitalità di «creatura». Il poeta, co-
munque sia, ha cessato di sentirsi demiurgo e visionario;
per diventare, però, un sottile persuasore di equivoci e di
piaceri storti.
Si sono visti fin troppo bene gli aspetti languidi e pian-
gevoli della poesia crepuscolare, si è vista l’ironia, non si
è fatto gran caso alla perfidia e all’ambiguita delle mano-
vre crepuscolari, non si e visto bene quanto di ‘decaden-
te’ (dal punto di vista, almeno, tematico dell’agonia ro-
mantica) viene sottilmente macerato in poeti dall’appa-
renza cosi inoffensiva. E dire che Moretti nella prefazione
a Poesie scritte col lapis (1910) citava con raffinata inten-
zione di espressivita addirittura Oscar Wilde. E sarebbe
bastato dedicare una non frettolosa indagine psicoanali-
tica all’incantevole crudeltà di un poemetto, molto Primo
Novecento, come «Il sogno di Pasquetta» con quella ser-
va sognatrice che uccide «per sbaglio» la piccioncina in
luogo del piccione maschio compiendo cosl la simbolica
eliminazione della padroncina rivale vincitrice in amore!
E lei lo sa, di essersi presa una «dolce vendetta»!
Non ci stupiremo, dunque, se Moretti tornando da ve-
gliardo alla poesia vi si ritragga sempre meno tenero. Am-
miriamo invece, e questa e stupefacente davvero, la sua
inesorabile grazia e bravura nel parlare di sé, caso forse
unico di antico-moderno: «Scrivere è malattia com’é buo-
na salute. /   / Scrivere e proprio tutto, amare è disama-
re, / volere il bello e il brutto, tenersi monte e mare».
Scrivere versi è ancora per lui «parlar di sé all’infinito».
Senza poter rinnegare il suo pascolismo di origine (non é
questa la sua novità), Moretti ha imparato a straziare un
pò il verso, che tende sempre a venirgli argutamente ac-

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cettevole. E per uno che continua a poetarsi nello spec-
chio e inevitabile la civetteria: «La parola più breve e la
più infida. / Si chiama io. /   / Nel cimitero una fossa,
IO. / Parola orrenda, l’altra orrenda è MIO. / Ma qualche
volta é come un chioccolio». Ciò che conta per noi e che
nei suoi modi di moderno-antico si dichiari una compia-
ciuta irrisione, una grinta sottopelle, il gusto di mandare
la gente alla malora e di godersi le fanciullaggini della vec-
chiezza.
Vorrebbe cacciare scarabei, e vuole l’ovetto caldo a fe-
roce dispetto di tutte le delizie supreme e gli emblemi fru-
gati dai suoi colleghi: «Ma se invecchiano i miei / anche
stingono i vostri, / sono gli stessi inchiostri, gli stessi pia-
gnistei... ». Dice che essere assente, indifferente, contro, è
«avanguardia »; ma poi ha un pensiero, una mossa da
grande esorcista carico di rughe: «Ma no, ch’io non fui
mai segnato a dito / né fermato per via quando scantono.
/ Fossi il primo ad accorgermi che sono / finalmente sva-
nito!». Restato cosi a lungo a sbeffeggiare nell’ospizio
del mondo, sogna di esserne espulso per indisciplina. Si
piace quando é bilioso, si apprezza quando morde, si con-
sola di brucare insalata con la sua tartaruga, di snobbare
le dame che lo cerimoniano dandogli la medaglia.
Chiamiamolo pure: il vecchio crepuscolare d’avanguar-
dia. E ammiriamo il suo sogghigno nitido di sopravvissu-
to, di longevo testardo e nascondino, più variato e disin-
volto e di musica più stramba di quand’era giovane. Così
contento della propria «carica nell’anca», e bravo nel si-
mulare di aver eluso il destino.


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